No alla scarcerazione dei fratelli Cesaro. La Cassazione: «Interessi su più livelli»

No alla scarcerazione dei fratelli Cesaro. La Cassazione: «Interessi su più livelli»
di Leandro Del Gaudio
Martedì 23 Ottobre 2018, 11:14
3 Minuti di Lettura
Non hanno convinto i giudici e la loro posizione non cambia. Restano in cella, neppure qualche dichiarazione messa agli atti in questi mesi è in grado di far cambiare il proprio status. E non è tutto. Anche lontano da Napoli (magari in qualche domicilio romano indicato ad hoc nel corso del procedimento), può aprire la porta del carcere in vista degli arresti domiciliari. Sono questi i punti fermi che hanno spinto i giudici della Cassazione a rigettare la richiesta di revoca dell'arresto dei fratelli Aniello e Raffaele Cesaro (detenuti da maggio 2017), finiti al centro di un'inchiesta sul Pip di Marano e sulle relazioni sospette con il clan Polverino. 
L'INTERCETTAZIONE
Difesi dai penalisti Vincenzo Maiello, Raffaele Quaranta e Paolo Trofino, i due imprenditori non hanno convinto i giudici, nonostante abbiano reso degli interrogatori nel tentativo di scardinare le accuse mosse dalla Dda di Napoli. Scrivono oggi i giudici della sesta sezione della corte di Cassazione (Vincenzo Rotundo presidente, Mirella Agliastro relatore) che «le dichiarazioni rese agli inquirenti non possono rappresentare una scelta collaborativa e quindi autorizzare un giudizio di minore intensità». In sintesi, le loro versioni non sono apparse in grado di capovolgere le accuse. Un'inchiesta firmata dal pm Mariella Di Mauro, magistrato in forza al pool anticamorra guidato dal magistrato Giuseppe Borrelli, che punta dritto sulla gestione dei finanziamenti del piano investimento produttivo di Marano.
Secondo le conclusioni della Procura di Napoli (che oggi escono rafforzate anche dalle motivazioni della Cassazione), ci sarebbe stato un accordo tra i fratelli Cesaro e la famiglia Simioli, a sua volta legata al potente cartello dei Polverino. Agli atti spuntano intercettazioni e testimonianze, in uno scenario in cui la Suprema Corte prova ad analizzare le versioni poste a confronto dalle parti: come per la storia della intercettazione dell'undici maggio del 2016, quella in cui a Raffaele Cesaro viene attribuita la parola «barone», che è poi il soprannome di Giuseppe Polverino. C'era o no la investitura del boss di Marano all'espansione imprenditoriale dei Cesaro? Agli atti finisce una versione alternativa, forte di una perizia di parte, secondo la quale Raffaele Cesaro può aver parlato di «bar» e di una «hall» e di camere di albergo, parole che nel linguaggio colloquiale suggeriscono l'espressione «barone». Una conclusione difensiva che non spinge però la Cassazione ad annullare il provvedimento detentivo, dal momento che su questo punto i giudici danno peso al racconto reso dal commercialista Giuseppe Bruno, «sulle strane riunioni con i fratelli Cesaro nel 2006, alla presenza di persone dall'evidente spessore criminale e dello stesso capo clan Giuseppe Polverino».
Un ampio spettro di attività viene così passato al setaccio ed è proprio il carattere «poliedrico» degli interessi economici e imprenditoriali dei Cesaro ad essere sottolineato dalla Cassazione.
GLI AFFARI
A ben vedere, «le dichiarazioni rese non esauriscono il pericolo di ripetibilità del contributo causale da offrire ad omologhi contesti affaristico criminali, dato che appare inverosimile la dismissione dei diversificati interessi imprenditoriali delle imprese Cesaro, che hanno spaziato dai centri sportivi, alle espansioni urbanistiche, alle speculazioni edilizie, anche in parti differenti del territorio. Ed allora è riduttivo ritenere che il pericolo possa concretarsi solo con la reiterazione della condotta contestata con il clan Polverino, per altro genericamente indicati». Inchiesta allo snodo che conta, ora la parola torna alla Procura di Napoli.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA