Napoli, il racconto da Scampia: «Io, già a dieci anni nella paranza imparavo a sparare»

Napoli, il racconto da Scampia: «Io, già a dieci anni nella paranza imparavo a sparare»
di ​Paolo Barbuto
Martedì 21 Giugno 2016, 08:43 - Ultimo agg. 22 Giugno, 17:01
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Il ragazzo ha uno sguardo severo negli occhi neri come la pece. Ha abbandonato Scampia due anni fa quando ha capito che «la camorra non è un gioco»: lo dice con quella disarmante schiettezza che solo i ragazzi riescono a conservare, anche quando hanno vissuto esperienze dure. Il ragazzo non avrà un nome in questa pagina perché ha bisogno di essere tutelato; quando aveva dieci anni s’è ritrovato all’interno di una «paranza» a Scampia: tutti bambini, qualche adolescente. È cresciuto con il mito del «cercare rispetto», ha imparato a sparare con una pistola a salve, è stato inviato a «punire» a calci e pugni quelli che avevano tradito e non bisognava smettere fino al momento in cui l’avversario, un ragazzino come lui, non restava a terra svenuto. Quando ha festeggiato i tredici anni ha scoperto che il «sistema» aveva bisogno di forze fresche: pian piano i suoi compagni di gioco sono stati «ingaggiati» dai clan. Stava per arrivare anche il suo momento «e allora ho capito che non era più un gioco, che volevano prendersi la mia vita. Non gliel’ho permesso. Sono andato via e non sono mai più tornato a Scampia».
Il ragazzo oggi ha quindici anni e da due anni s’è allontanato dalla «paranza». Ha un’intelligenza vivace, sta studiando con profitto e ha iniziato a leggere, a capire. Le storie degli uomini che hanno dato la vita per la lotta alle mafie lo hanno segnato, così ha deciso che anche lui diventerà un uomo che lotta contro quel male che ha frequentato da vicino «perciò voglio raccontare cosa succede nelle paranze dei bambini - spiega nel primo incontro - tu pensi che sia un gioco, invece stai andando a scuola. Una scuola di violenza». L’appuntamento è a Scampia, di mattina, senza troppo clamore, senza avvisare le forze dell’ordine perché non vuole essere notato: «Parliamo e ce ne andiamo subito, d’accordo?». D’accordo.

Perché sei entrato in una «paranza»?
«Avevo dieci anni. Scendevo a giocare con i miei amici: guardie e ladri con le pistole di plastica. Poi il gruppo di amici è cresciuto, siamo diventati tantissimi, ci siamo resi conto che potevamo prenderci il potere, il rispetto».

Ti rendi conto che la ricerca del rispetto è un atteggiamento di camorra?
«Sì, lo so».

E non c’è la camorra dietro una paranza di bambini?
«Dietro la nostra paranza no, non c’era la camorra. Dietro le altre non lo so»

Quanti eravate?
«Quando eravamo in pochi almeno cento».

Cento bambini? 
«Dai dieci ai sedici anni, ma i grandi erano pochi».

Cosa facevate, come vi prendevate «il rispetto»?
«Andavamo a sfidare gli altri gruppi, andavamo fin sotto le loro case e li invitavamo a confrontarsi con noi. Eravamo in tanti, loro non scendevano nemmeno e si sottomettevano».

È in quel momento che avete creato la «paranza»?
«È una cosa naturale, non è che un giorno decidi. Ti ritrovi ad essere dentro una di quelle che voi chiamate baby gang e che per noi sono paranze».

E cosa fa una paranza?
«Pensa a come dominare. Anche perché ci sono altri gruppi altrettanto forti, allora devi fare qualcosa di importante».

Cioè?
«Devi andare sotto casa di uno dei loro capi, lo chiami, lui si affaccia e gli punti addosso una pistola».

Non è possibile, questo è incredibile: un gruppo di bambini riesce a procurarsi una pistola?
«Vabbè, ma erano pistole a salve. Solo rumore senza uccidere nessuno».

E chi ve le dava?
«Le andavamo a comprare all’armeria. Mi sembra normale».

No, non sembra normale che un ragazzino vada in armeria e gli diano una pistola.
«Noi raccoglievamo i soldi con una colletta, andavamo al centro di Napoli, li mettevamo sul bancone e avevamo la pistola. Ne abbiamo comprate un sacco».

E con quelle pistole andavate a minacciare i vostri «avversari»?
«Sì, o gliele puntavamo in faccia quando li incontravamo per strada oppure andavamo a chiamarli sotto al balcone. Quando uscivano noi sparavamo. Si affacciavano da tutti i balconi».

Dunque vi vedevano, nessuno è mai intervenuto?
«No, no. Quando capivano che eravamo centinaia se ne andavano e si chiudevano dentro. Gli facevamo paura, perciò nessuno è mai intervenuto».

Vuoi farmi credere che a Scampia c’è qualcuno che spara, anche se a salve, e la camorra non se ne accorge? 
«È logico che se ne accorgevano. Però non ci dicevano niente. E noi continuavamo».

E andavate a imporvi anche in altre zone?
«A Mergellina, più spesso al Vomero».

Che facevate?
«Ci divertivamo a dare fastidio alla gente, ai ragazzi del Vomero».

Facevate rapine?
«No, rapine no. Qualche pestaggio sì».

E come raggiungevate il Vomero?
«Con la metropolitana. Però con un trucco».

Cioè?
«Andavamo a gruppetti di massimo venti persone. Se fossimo entrati in cento sulla metro ci avrebbero subito identificati. Hai visto che ci sono polizia ed Esercito alla fermata? Invece così nessuno faceva caso a noi. E poi ci riunivamo sul posto».

Avevate anche un codice d’onore
«Chi tradiva doveva essere punito. Doveva essere picchiato con forza. A volte qualcuno è andato in ospedale».

E tu non le hai mai prese?
«Durante gli scontri con le altre paranze succedeva. Tornavo a casa con gli occhi neri».

E i tuoi genitori?
«Non hanno mai capito quel che facevo. Gli dicevo che mi ero fatto male giocando a pallone».

Possibile che non sapessero?
«Ne sono certo».

Perché a tredici anni hai deciso di lasciare la paranza?
«Stavamo crescendo, diventavamo più grandi ed eravamo sempre di più, così pian piano venivamo avvicinati».

Da chi? Per fare cosa?
«Secondo te a Scampia chi avvicina un ragazzo che sta in una paranza? In molti hanno iniziato a spacciare, ad altri veniva chiesto di conservare qualcosa o di portare un pacchetto in qualche casa».

Dei cento bambini del tuo gruppo quanti sono passati al servizio di un clan?
«Più o meno cinquanta. Forse qualcuno in più o in meno. Circa la metà».

E sono tutti tuoi coetanei?
«Si, oggi avranno tra i quattordici e i diciassette anni. Comunque sono tutti vicini alla mia età».

E a te chi si è avvicinato?
«No, a me non si è avvicinato nessuno. Mi sono allontanato prima che potessero venire da me. Un giorno li ho salutati e non sono più venuto a Scampia».

E loro non ti hanno cercato?
«Come no? Tante volte hanno provato a riportarmi dentro ma sono sempre riuscito a restare lontano».

Ora ci troviamo a Scampia, non hai paura che qualcuno ti riconosca e venga da te?
«No, non ho paura... Cioè sì, effettivamente un po’ di paura ce l’ho. Perché se non riescono a parlarti puoi sentirti sicuro. Però se vengono a chiederti qualcosa e tu rifiuti, possono essere guai».

Ti sei allontanato per non avere problemi?
«All’inizio sì, solo per questo. Ho pensato che finché si trattava di giocare era divertente. Però se finisci nel sistema sei finito, quella non è vita. Non volevo vivere così».

Continui a usare la parola «gioco», però quello che facevate non era un gioco.
«È proprio così, quello non è un gioco. La camorra non è un gioco».

A questo punto il ragazzo ha un sussulto. Ha visto qualcosa, o qualcuno, e diventa nervoso: «Ce ne dobbiamo andare, ce ne dobbiamo andare. Vai a prendere la macchina voglio andare via subito».

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