«Io in carcere? Va bene
sarà la mia università»

«Io in carcere? Va bene sarà la mia università»
di Marco Di Caterino
Venerdì 26 Maggio 2017, 08:50 - Ultimo agg. 08:53
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Melito. «Ma come, mi arrestate? Se erano loro che mi volevano uccidere. Mi hanno colpito allo stomaco e io mi sono solo difeso». D.A, il sedicenne figlio di Rosaria Pagano, sorella di Cesare, e di Pietro Amato, il boss defunto, cugino di Raffaele Amato, detto 'o Lello, ha mostrato stupore quando i carabinieri di Castello di Cisterna, diretti dal capitano Francesco Caratti, dopo averlo fermato per strada, lo hanno portato in caserma, martedì scorso. Dovevano notificargli l'ordinanza di custodia cautelare in un istituto di detenzione per minori, per il duplice omicidio di Alessandro La Peruta, 32 anni, e Mohamed Nouvo, 30 anni, uccisi a colpi di pistola in un appartamento al quarto piano delle palazzine popolari di Via Giulio Cesare, alla periferia di Melito, il 20 giugno dello scorso anno.


Ma poi non ha fatto una piega, davanti a quell'imputazione, nonostante davanti al suo futuro si allungasse la sky line delle sbarre di una cella. Nelle case della ricostruzione post terremoto, tagliate in due da via Lussemburgo - la strada dell'Eldorado di tutte le droghe importate dalla Spagna, feudo incontrastato degli scissionisti della prima ora, quelli cresciuti sotto l'ala di Cesare e Raffaele Pagano, padre e zio del baby boss - nessuno avrebbe voglia di parlare di quel «guaglioncello», che già era il loro capo. Solo un compagno di scuola, che pure si è fatto qualche mese ai Colli Aminei il centro di accoglienza per i minorenni che delinquono sbotta: «Ma lui me lo diceva sempre: Questa è la mia vita. E mi piace. Se dovessi finire in galera, meglio così. È un'esperienza da fare. Lì si cresce». Era questa la vita che gli piaceva. Vita da boss degli anni Duemila, vacanze in luoghi da sogno, auto sportive, Rolex e fiumi di champagne. Dom Perignon, preferibilmente. Amici con cui tirare tardi, tatuaggi esagerati, il suo cognome esibito come una griffe sulla pelle.


Vita dorata, vita violenta. Nemmeno la nascita del figlio, un figlio avuto a sedici anni, che adesso ha due mesi, ma del quale non ha fatto nemmeno un accenno ai carabinieri, su come e quando potrà rivederlo, gli ha fatto cambiare prospettiva su una vita diversa. Questo ragazzino, dicono qui in Via Lussemburgo, il suo feudo, è un capo nato. Capace di grandi gesti di generosità, ma anche duro e crudele. A chiedere in giro, tutti credono alla storia della legittima difesa. Che sicuramente sarà la strategia difensiva, per evitargli una lunga condanna. Pochi giorni prima del duplice omicidio, il rampollo degli Amato-Pagano e una delle vittime, Nuvo Mohammed, erano venuti alle mani in un locale del posto, una sorta di bar-paninoteca. Ed era spuntata anche una pistola, però utilizzata solo per colpire con il calcio la testa del marocchino, che per conto del clan e insieme ad Alessandro La Peruta spacciava droga. Un litigio, si mormora nelle piazze di spaccio di Melito, provocato dallo stesso minorenne, che si era reso conto delle difficoltà del clan, che rischiava una spaccatura fatale, su chi doveva gestire lo spaccio.


Un anno fa, l'intero sistema era gestito da Pietro Caiazza, detto «Pierino o napulitano», su precise indicazioni di Rosaria Pagano, la mamma del minorenne,la «Chanel» di Melito arrestata lo scorso gennaio e ora finita al carcere duro. La figura e i metodi di Pietro Caiazza non erano graditi dagli affiliati storici al clan, e tra questi Ciro e Raffale Mauriello, i due padrini del diciassettenne. Insomma la cosca era sull'orlo di una scissione dai risvolti drammatici. E i discorsi su come esautorare Pietro Caiazza erano benzina sul fuoco nella testa del baby boss. Che agiva per conto suo. D'impulso. Così quella lite, secondo gli inquirenti, non era altro che un pretesto per cacciare in tutti i modi la frangia degli spacciatori fedeli a «Pierino o napulitano», che mangiava in due piatti, a Melito con la droga e ad Afragola con le sigarette di contrabbando.

Così, senza far trapelare i suoi propositi, il figlio di Rosaria Pagano ordinò quell'incontro con Alessandro La Peruta e il marocchino, per «togliere tutto da mezzo e fare pace». Un gesto di riappacificazione, che in realtà nascondeva così come hanno accertato gli inquirenti la volontà dell'allora quindicenne di avere il battessimo del fuoco e del sangue, senza il quale non si sentiva ancora un vero boss. Il piano fu nascosto persino a Raffaele Mauriello, il suo tutore, che quel 20 giugno lo scortò al luogo dell'appuntamento. I due spacciatori si presentarono armati all'appuntamento con quello «spostato» di Mimmo. E invece delle parole, fioccarono pallottole.

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