Napoli, i migranti raccontano:
«Noi, scampati alla morte»

Napoli, i migranti raccontano: «Noi, scampati alla morte»
di Donatella Trotta
Martedì 25 Ottobre 2016, 09:47 - Ultimo agg. 26 Ottobre, 08:11
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Ragazzi in fuga. Senza genitori a proteggerli. La testa piena di sogni, il cuore gonfio di paura per l'incertezza del loro futuro. Legato - ora - al complesso iter delle normative del Paese ospitante. Sembravano già tanti, ma sono aumentati: non i 97 accertati all'inizio, bensì 110, tredici in più. Sono i minori non accompagnati, approdati domenica mattina a Napoli dove, dopo un'odissea collettiva tristemente già vista e ripetuta - sino a trasformare il Mediterraneo in una grande tomba sottomarina - sono sbarcati i 466 migranti, uomini, donne e bambini salvati dalla nave «Gregoretti» della Guardia Costiera. Al termine delle operazioni di identificazione in Questura, questo è il dato più aggiornato. Che rispecchia un'emergenza oggettiva di tutela, cura e assistenza. Cinquantuno di questi ragazzi, tutti maschi tra i 13 e i 17 anni (età media 16 anni) sono, da domenica notte, ospitati per la prima volta dal Centro polifunzionale San Francesco d'Assisi a Marechiaro. Ma tra essi, circa dieci dovranno essere smistati in strutture di accoglienza per adulti perché hanno dichiarato un'età inferiore a quella reale.

Come Toure Amara, ivoriano, che di anni ne ha 24 e accetta di raccontare la sua storia nei giardini della bella struttura ricettiva al civico 80 di Discesa Marechiaro inondata, ieri mattina, dal sole che riscalda il grande complesso residenziale del Comune, destinato all'accoglienza di gruppi e ad attività rivolte a bambini, adolescenti ed educatori e composto da luminosi spazi interni, cortili e ampi giardini - confinanti col Parco Archeologico della Gaiola - dove i ragazzi migranti si aggirano spaesati e silenziosi. A gruppetti, divisi per etnie, i ragazzi sgranocchiano mele gialle dopo essersi rifocillati nei loro abiti nuovi, dopo una prima notte di quiete in letti veri. Solo il piccolo Ibrahim, tredicenne della Costa d'Avorio, non si sente bene: lamenta dolori in tutto il corpo, quasi non riesce a camminare e perciò resta steso a letto, in attesa del medico che arriverà nel pomeriggio: con la pediatra Lina Di Maio, c'è il dottor Picciano, direttore responsabile del distretto 28 di Scampia e appassionato referente, per l'Asl Napoli 1 - nella efficiente rete sanitaria messa in piedi per i migranti - del primo contatto con loro, dallo sbarco in poi.
 
 

Toure invece non sembra aspettare altro che ascolto: «Non faccio questa intervista per me - tenta di specificare in un inglese elementare - ma per tutti i miei amici che hanno bisogno di aiuto, che ancora rischiano la vita come l'ho rischiata io per riuscire a raggiungere l'Europa, del cui sostegno abbiamo estremo bisogno: vi prego, scrivete che bisogna riportare la sicurezza in paesi come il mio o come la Libia». Primogenito di sette figli di un lavoratore precario e di una casalinga, Toure viene dall'area di Abidjan Abobo, distretto della Costa d'Avorio densamente popolato e misero, ad alta densità criminale dove il giovane ha sofferto l'escalation di violenza generata dalla crisi ivoriana. Sognava di studiare, è arrivato fino al secondo anno di università ma è dovuto scappareper tentare di realizzare la sua aspirazione: «Mi sentivo in pericolo - dice - come tanti altri giovani, e perciò sono scappato e ho raggiunto a piedi la Libia dove però è andata anche peggio. Lì i neri sono perseguitati, soggetti a schiavitù, sfruttati, a volte uccisi. Ci considerano merce da comprare e vendere: per i boss arabi valiamo mille-millecinquecento euro a testa. Ci facevano dormire per terra. Molti miei compagni sono stati imprigionati. E il peggio è che alcuni africani sono complici di questa organizzazione: girano con pick-up, armati di tutto punto, a caccia di giovani come me. Se vuoi sopravvivere, sei costretto a nasconderti». Toure, racconta, sbarca il lunario come può per racimolare i soldi per la traversata della speranza di cui ha tanto sentito parlare: l'Europa come terra promessa, l'Italia come approdo di «brava gente». Di passaparola in passaparola, il gruppo iniziale di due-tre compagni aumenta, e intanto raggiunge la costa passando di intermediario in intermediario, via autobus o pullman, fino a imbarcarsi sul gommone che ha portato Toure a Napoli: «Eravamo stipati in 130 - ricorda - con un'alta conflittualità, c'erano anche donne e bambini che volevamo proteggere ma non hanno voluto, perché avevano paura per la loro vita. Quando abbiamo intravisto la nave della salvezza, è stata una ressa per raggiungerla, e io ho visto annegare almeno quattro compagni».

 

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