​Ferrari, Rolex e fan: se il baby killer è senza limiti

Ferrari, Rolex e fan: se il baby killer è senza limiti
di Francesco Durante
Venerdì 26 Maggio 2017, 09:54
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La cosa più paradossale è che a un soggetto simile i media siano tenuti a riservare le stesse attenzioni che si garantiscono a qualsiasi altro minore: foto «pixellate» in modo da non mostrarne il volto, le sole iniziali per non rivelarne il nome. È soltanto un ragazzo – ha soltanto quindici anni – e va tutelato in questa fase difficile della vita in cui può capitare – e càpita a tutti o quasi - di commettere qualche bravata. Vale anche per lui la speranza che possa capire i suoi errori e redimersi, diventando un adulto consapevole, magari per il bene di suo figlio. Sì: perché ha già un figlio, anche. 

Purtroppo, però, le bravate di Domenico Antonio A., come tutti ormai sappiamo, comprendono tra l’altro due omicidi o, meglio, due «esecuzioni» portate a termine con modalità particolarmente efferate. A quindici anni, si è già comportato come uno spietato camorrista metà killer e metà boss. Uno che sa di dover essere assolutamente temuto e riverito da tutti, e che nel prematuro fulgore della propria carriera criminale ha bisogno di mostrare a tutti quanto conta, quanto comanda, quanti lussi può concedersi. È in questo passaggio che il delirio di onnipotenza dell’uomo d’onore cede il passo all’entusiasmo del ragazzino. Quello che posta tutto sui social: per il proprio orgoglio, e per la gioia dei suoi tremila (tremila!) «amici».

Ora noi possiamo chiederci quale sia il debito che questa pazzesca storia di degrado umano abbia contratto con le rappresentazioni televisive in stile «Gomorra», in virtù di quell’inevitabile cortocircuito che si produce nella società della comunicazione di massa; e quanto, invece, debba alla più arcaica e selvaggia storia criminale della famiglia nel cui seno è coerentemente cresciuto. A occhio e croce, si direbbe che il suo caso mostruoso si trovi a mezza via tra il passato e il presente, e che – certo nella più completa deformazione di ogni possibile pedagogia positiva – sia in qualche modo espressione di uno standard contemporaneo. Che dunque questo ragazzo sia anch’egli figlio di un’epoca in cui, venuta meno l’autorità genitoriale e sciolto ogni rigore in forme molto ampie di liberalità e comprensione degli errori, il senso del limite sia del tutto abolito. In una normale famiglia borghese questo può comportare una certa rilassatezza dei genitori su questioni come l’uso, da parte dei figli, delle droghe leggere, o magari certe loro intemperanze verbali, o ancora la pratica episodica di una certa violenza non grave, o la partecipazione a imprese vandaliche o a piccoli regolamenti di conti per questioni di supposto amore/onore. Sbagli più o meno gravi, ma del tipo che non pregiudica la possibilità di un pentimento e di un recupero, e per i quali c’è bisogno di un po’ di pazienza.

Nel deserto assoluto di valori, cultura, educazione del mondo criminale, la perdita del senso del limite, che pure nel passato esisteva, fa sì che il livello si sposti molto più in là. A quindici anni Domenico Antonio A. non posta su Facebook un video del suo cantante pop preferito, bensì i simboli della sua presunta opulenza: le bottiglie di Dom Perignon, il Rolex d’oro al polso, se stesso alla guida di una Ferrari, un minaccioso dipinto murale che ne celebra la forza, e in primo piano i suoi inquietanti tatuaggi: un trionfo di pistole e parole deliranti. Roba che merita «rispetto» e che probabilmente desta l’incantata ammirazione di quei già menzionati tremila «amici» che, insieme con lui, costituiscono una piccola parte del folto esercito di autentici «foreign fighters» del vivere civile annidati nel seno della nostra società: adoratori del Dio Denaro, fondamentalisti di un’idea che più ultimativa e malsana non è possibile concepire e, all’occorrenza, terroristi di una specie diversa ma non meno spaventosa. Morituri che non hanno bisogno di nascondersi nell’internet profondo, ma che, al contrario, ostentano il male come una medaglia di cui andar fieri. Sono lì, guardateli: di certo non si vergognano, anzi. Per quelli come loro, gli unici a doversi vergognare sono coloro che non hanno introiettato la filosofia nichilista cui s’affida la loro vita incerta e confusa e ancor più la prospettiva assai probabile della loro morte prematura. Gli unici a doversi vergognare sono i perdenti, le inutili pedine di cui ci si può sbarazzare senza andar troppo per il sottile: proprio come i due uccisi da Domenico Antonio A., almeno uno dei quali forse è stato fatto fuori soltanto per eccesso di zelo. Nel dubbio...

Resta, ed è la cosa più penosa, il mistero di come continui a essere possibile il perpetuarsi di questi modelli, e ancor più la consapevolezza del peso insostenibile che una simile sottocultura criminale rappresenta per il futuro di tutti noi in questa parte del mondo. Resta un senso agghiacciante di fallimento per tutte le idee progressive degli ultimi trenta-quarant’anni: la scolarizzazione di massa, l’emancipazione, l’affermazione dei diritti civili, la fiducia in un mondo migliore... Qui e ora, mentre nel resto dell’Occidente, pur tra convulsioni e incertezze, la storia continua ad andare avanti, migliaia di ragazzi vivono chiusi nella scatola di fiammiferi di un modo angosciosamente chiuso, ottuso, tribale. Un mondo che arretra paurosamente, e che rischia di sommergerci.
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