Attivista gay ucciso e fatto a pezzi, l'ultima follia di Ciro: ha finto di essere Vincenzo scrivendo in chat ai suoi amici

Attivista gay ucciso e fatto a pezzi, l'ultima follia di Ciro: ha finto di essere Vincenzo scrivendo in chat ai suoi amici
di Mary Liguori
Martedì 8 Agosto 2017, 11:21 - Ultimo agg. 11:56
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Ha finto di essere Vincenzo la sera in cui l’ha ucciso. Si è spacciato per lui, in chat, dopo averlo sequestrato in casa di Heven. Voleva a tutti i costi che nessuno sospettasse che Vincenzo fosse in pericolo. Il suo piano era far credere che il 25enne si fosse allontanato di sua spontanea volontà e per questo ha usato il suo telefonino per far credere a tutti che fosse ancora vivo.

Ciro Guarente ha lucidamente cercato di ingannare tutti e le sue bugie sono iniziate la sera del 7 luglio. Il piano era convincere tutti che Vincenzo Ruggiero stesse bene e che, quella sera, non sarebbe andato all’appuntamento con gli amici a piazza Carlo III perché aveva avuto un problema al lavoro. Falso. Tutto falso. E uno degli amici di Vincenzo si era accorto che a scrivere quei messaggini non era affatto il 25enne. Un particolare ha tradito Guarente. I due ragazzi si scrivevano chiamandosi reciprocamente «amika». Con la «k». Invece, in quei messaggini, spediti alle 20 del 7 luglio, la parola «amica» era scritta con la «c». Solo dopo, quando di Vincenzo si è persa ogni traccia, il suo amico ha collegato l’anomalia con quanto stava accadendo. Quella sera l’amico di Vincenzo ha inconsapevolmente chattato con l’assassino.
 


Inquietante. Come l’intero piano di Guarente, in parte ricostruito dai carabinieri, in parte ancora coperto da un’incomprensibile coltre di mistero. Ma andiamo con ordine. Gli spostamenti di Guarente sono stati ricostruiti attraverso le celle telefoniche agganciate dal suo cellulare e grazie alle immagini registrate da una telecamera posizionata di fronte alla casa di Heven Grimaldi, la transessuale sua fidanzata da sette anni. Ciro entrò in quella casa di via Boccaccio ad Aversa alle 15. Vincenzo tornò dal lavoro alle 18. Da quel momento, il ragazzo non è mai più uscito, mentre il suo assassino si allontanò per tre volte. Alle 21, a mezzanotte e alle 4 del mattino. Alle 20, dunque, vittima e carnefice erano entrambi in casa. Se Vincenzo fosse ancora vivo, al momento non è possibile dirlo. Eppure, da quel momento, dal telefono di Vincenzo sono partiti dei messaggini. «Ho avuto un contrattempo al lavoro, ti raggiungo dopo, amica», uno dei testi, con quella «c» che ha tradito l’assassino. E poi Vincenzo dal lavoro era tornato alle 18: alle 20 era già in balìa del suo carnefice. Ma non è tutto. Per i dieci giorni successivi, il telefono di Vincenzo non è stato muto. Squillava, così dicono i suoi amici. Uno squillo, poi la chiamata veniva interrotta. Solo a partire dal decimo giorno dalla sua scomparsa, chiamando il numero di Vincenzo attaccava subito la segreteria telefonica. Di quel cellulare si è persa ogni traccia. Non lo si trova più insieme ai vestiti e alle scarpe di Vincenzo, che Guarente ha gettato dentro alcune valigie e portato via da via Boccaccio tra le 21 e la mezzanotte di quella sera. In quelle ore forse era ancora vivo. Nella casa della sua amica trans, che in quei giorni era a Bari, forse legato o privo di sensi. O, ancora, drogato da Guarente, tramortito e solo prima dell’alba, infilato in un sacco nero per la spazzatura e trascinato fuori casa di Heven, nascosto dal suo assassino nel cofano della macchina e condotto a Ponticelli.

Da quel momento, erano le 4 del mattino dell’8 luglio come testimoniano i frame dei video acquisiti dalla procura, Ciro Guarente ha commesso una mostruosità dopo l’altra. L’ha ucciso, poi ha cercato di seppellire il cadavere dentro un cunicolo dei garage sottostanti le palazzine popolari di via Scarpetta a Napoli, dove l’ex militare della Marina viveva con la sua famiglia d’origine.
Una «tomba» di un metro per tre circa, dove ha sistemato il corpo del ragazzo e l’ha cosparso di acido. Il liquido corrosivo, l’assassino, potrebbe averlo preso dall’autolavaggio abusivo che si trova accanto al box dell’orrore. E l’operazione ha richiesto alcuni giorni. Con tutta probabilità, Guarente è tornato nel garage più volte prima di murare i resti del 25enne sotto alcuni centimetri di cemento a presa rapida. Forse Vincenzo dunque quando Guarente lo ha gettato in quel cunicolo. Incosciente, ma vivo. Forse i due colpi al petto li ha esplosi dopo averlo adagiato nel box. Poi lo ha decapitato e la testa non è ancora stata trovata. Probabilmente Guarente credeva che in questo modo Vincenzo non sarebbe stato identificato anche se i resti fossero stati ritrovati. Ma si sbagliava. Benché abbia mentito e ora taccia, i carabinieri del Territoriale di Aversa, agli ordini del maggiore Antonio Forte e del tenente Flavio Annunziata, coordinati dal procuratore Francesco Greco, hanno contro di lui indizi schiaccianti, elementi che vanno ben oltre la sua inevitabile e mendace confessione. 

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