«Io, infermiere, ho lavorato per 18 ore
il giorno in cui l'ambulanza arrivò tardi»

«Io, infermiere, ho lavorato per 18 ore il giorno in cui l'ambulanza arrivò tardi»
di Maria Pirro
Mercoledì 30 Agosto 2017, 10:03 - Ultimo agg. 1 Settembre, 08:19
5 Minuti di Lettura
Vincenzo Di Vaio è uno degli infermieri in servizio nella centrale operativa del 118. Ed è uno tra i più esperti: 17 dei suoi 49 anni li ha trascorsi lì, feste comandate comprese (sorride), nell'open space al Cardarelli. «All'inizio, uno stanzone al pianterreno attrezzato solo con quattro o cinque telefoni utilizzati esclusivamente per individuare i posti letto disponibili negli ospedali cittadini e provvedere a trasferire gli ammalati. Poi, il servizio è stato ampliato, con sette postazioni, il carico di lavoro raddoppiato». Ma, aggiunge Di Vaio, esponente del sindacato Nursid, «ho continuato con sacrificio e orgoglio. Mai un passo indietro, fino a oggi, che sono additato come il mostro». Perché un uomo di 42 anni, Marco D'Aniello, affetto da talassemia, è morto il 3 agosto a seguito di un malore alla stazione ferroviaria di Napoli. La tragedia è finita al centro di due indagini, una affidata a una speciale commissione della Regione Campania e l'altra dovuta alla denuncia in procura presentata dagli stessi vertici della struttura sanitaria per i ritardi nei soccorsi.

Trentuno minuti sono trascorsi, infatti, tra la richiesta di aiuto al 118 e l'arrivo dell'ambulanza alla stazione, anziché i dieci d'attesa come «tempo massimo» indicati dallo stesso direttore del 118, Giuseppe Galano. Qual è la ragione dei ritardi?
«E pensare che quel giorno, in realtà, non dovevo neanche essere lì...».
Cioè?
«Sono rimasto al lavoro per 18 ore consecutive. E non è stata la prima volta, ma un episodo».
Ha lavorato per diciotto ore no-stop, quel giorno?
«Dovevo andare via a fine turno, alle 20, ma un collega non s'è presentato e l'ho sostituito».
Con quale compito?
«Quella sera ero addetto alla ricezione delle telefonate».
Quindi, lei ha anche intercettato le richieste di aiuto provenienti dalla stazione ferroviaria.
«Sì, ho preso io una telefonata».
Quale?
«Non la prima, ma una in cui un passante segnalava che una persona vomitava sangue al binario 14, in piazza Garibaldi».
Un sos classificato con codice giallo, di media gravità. Perché questa valutazione?
«In origine, tutti abbiamo pensato che si trattasse di un ubriaco, probabilmente un senzatetto, che vomitava per aver ingerito vino. Di segnalazioni così ne arrivano ogni giorno e le consideriamo un codice giallo».
Per questo il problema, dunque, è stato sottovalutato?
«No. Con il passare dei minuti, abbiamo capito l'importanza di quell'intervento».
Ma il codice di priorità non è stato modificato, nonostante le telefonate per sollecitare i soccorsi. Nove, in totale. Per quale motivo?
«Non abbiamo cambiato il codice perché eravamo oberati di lavoro, ma tra noi ce lo siamo detti che era urgente. Abbiamo cercato di fare presto, quando ci siamo resi conto, e questo risulta nei dialoghi registrati».
In concreto, che significa?
«Abbiamo risposto a oltre cento telefonate: in un turno di sei ore la media è di 150 per ciascun operatore. Non solo».
Cosa?
«Smistiamo noi anche le chiamate alle altre centrali del 118 nella provincia di Napoli. Il tutto, in permanente carenza di personale in organico».
Nel corso degli anni, l'emorragia di personale è stata segnalata anche dal direttore del 118, che ha riconosciuto anche l'impegno del governatore de Luca per affrontarla, ma definito ancora insufficienti le risorse.
«Dieci anni fa eravamo in sei per turno, quella sera in quattro. Dovremmo essere almeno in sei».
Questo può aiutare a spiegare perché due ambulanze, risultate libere quella sera, non sono state inviate in piazza Garibaldi?
«Di certo, non per mancanza di volontà nell'aiutare quell'uomo. Eravamo in contatto anche con il Loreto Mare, in attesa che i colleghi si liberassero da un altro intervento. La loro disponibilità sembrava imminente e, da quel punto, l'ambulanza sarebbe arrivata prima sul posto perché più vicina. Le altre libere erano dall'altra parte della città, una addirittura a Scampia, e quindi avrebbero impiegato più tempo a raggiungere la stazione. Poi, sono stato proprio io a inviare gli operatori sul posto per dare una mano ai colleghi».
Però, si è perso tempo prezioso.
«Le ambulanze su cui puntavamo hanno avuto difficoltà, probabilmente, nel recuperare la lettiga al pronto soccorso».
Questo problema è stato denunciato più volte: è noto.
«Determina un effettivo rallentamento nelle operazioni di soccorso, che va affrontato a prescindere dalla tragedia».
Ma perché dire, quel giorno al telefono, che le ambulanze erano tutte occupate se ne risultavano due libere nel sistema informatico?
«Per una questione di velocità, lo abbiamo detto. Lo facciamo, in genere, per rassicurare le persone, dall'altra parte del cavo, mentre provvediamo a organizzare i soccorsi. Come una parola d'ordine per prendere tempo».
Galano ha tirato in ballo anche il medico in servizio, quel giorno, al 118.
«Il giovane medico, inquadrato attraverso una convenzione con la Croce Rossa, ha seguito con noi la situazione e la valutazione del caso».
Adesso, lui è sospeso e lei con gli altri tre infermieri di turno sottoposti a procedimento disciplinare.
«È la prima volta in tutta la mia carriera, mai un rimprovero verbale o scritto; non mi è ancora arrivata la convocazione, ma potrò solo ripetere questo: che mi sono sempre sacrificato in un lavoro pieno di responsabilità».
Vuole mandare a un messaggio alla famiglia colpita dal lutto?
«Un messaggio di cordoglio e comprensione per l'accaduto».
La sua famiglia, cosa le ha detto?
«Ho tre figli, mia moglie come me è addolorata. Da giorni sono in ferie ma non esco, resto a casa».
Chi chiede aiuto al 118?
«Tutta Napoli. Anziani con la febbre, donne con una colica addominale, ammalati oncologici, bambini che fanno gli scherzi telefonici. E poi, ci sono le grandi emergenze».
Quali ha seguito in prima linea?
«L'alluvione e il blackout a Napoli, ad esempio, e tante altre avvenute negli ultimi 17 anni. Diciassette anni della mia vita».