Napoli, presentato “La verità suldossier mafia-appalti”: quando la storia si ripete

Un saggio degli ex ufficiali del Ros e le grandi inchieste disinnescate tra Palermo e Napoli

“La verità suldossier mafia-appalti” presentato a Napoli
“La verità suldossier mafia-appalti” presentato a Napoli
di Leandro Del Gaudio
Martedì 5 Marzo 2024, 12:25 - Ultimo agg. 14:04
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Il metodo Dalla Chiesa, quello maturato negli anni della lotta al terrorismo, fatto di lunghissimi appostamenti, di raccolta di informazioni che entrano nel corredo genetico dello stesso gruppo di lavoro, di scrupolosa attività di verifica di fonti e informazioni (fossero anche fonti confidenziali). Ma c'è tanto altro: a partire dal follow the money, vale a dire la ricerca del denaro sporco, della formazione di riserve in nero, un metodo investigativo destinato a tenere uniti nello stesso solco investigativo monumenti nazionali come Carlo Alberto dalla Chiesa e i pm Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sacrificati sull'altare della lotta alla mafia, ma soprattutto, finiti al centro di discutibili strategie investigative.

C'è questo ed altro nel saggio “La verità sul dossier mafia-appalti”, storia, contenuti, opposizioni all'indagine che avrebbe potuto cambiare l'Italia (Piemme edizioni), scritto a quattro mani dagli ex vertici del Ros dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno. Un testo che punta a fare chiarezza sul metodo usato per contrastare la mafia, prima delle stragi del 1992, ma che verrà traslato dallo stesso De Donno anche in Campania, a proposito di contrasto alla Nuova famiglia (quella di Carmine Alfieri e Pasquale Galasso), in quei drammatici anni Novanta (nel tentativo di fare chiarezza sulle infiltrazioni camorristiche nei grandi appalti tra Napoli e Caserta).

Un testo ruvido ed efficace, quello scritto da Mori e De Donno, di recente presentato a Napoli all'interno dell'aula Metafora del Tribunale di Napoli, grazie al lavoro di coordinamento del penalista napoletano Guido De Maio, avvocato da sempre attento alla formazione delle giovani generazioni, ma anche protagonista del dibattito su temi spigolosi di politica e giustizia in Italia.

E nulla risulta tanto spigoloso come la storia del dossier mafia appalti, sembra di capire. È come se nella gestione (e nella gestazione) di quel rapporto spedito dai carabinieri alla Procura di Palermo, ci fosse la madre di tutte le inchieste, in grado di dare una spallata alle cosche mafiose; ma anche l'origine di tutti i tentativi di insabbiamento, di manomissione, di condizionamento che in genere si abbattono su indagini giudiziarie che possono incidere su comitati di affari e equilibri opachi tra politica e mafia.

Nel dossier – sembra di capire – c'è tutto: le mani che lo hanno scritto e le manine che hanno provato a disinnescarlo, secondo metodi e strategie che si sono riproposte anche in altri fascicoli giudiziari in Italia (ovviamente vicende meno dirompenti come le stragi di mafia in Sicilia e sul continente).

Ma proviamo a fissare alcuni punti, alla luce di alcuni aspetti oggettivi e incontrovertibili, prima di addentrarci nella trama di accuse e veleni che si sono abbattuti su questo strumento di lavoro. Che cosa è il dossier mafia appalti? Si tratta di una informativa di polizia giudiziaria nata grazie al lavoro di un giovane ufficiale dell'arma, Giuseppe De Donno (formatosi alla scuola militare Nunziatella di Napoli), composta da 900 e passa pagine. C'è una data che fa da spartiacque: siamo a febbraio del 1991, quando il dossier mafia appalti viene trasmesso alla Procura di Palermo, anche se si tratta di un lavoro che sintetizza anni di indagini e di intuizioni investigative.

Come in tutte le grandi storie, si parte da una vicenda apparentemente circoscritta. Siamo nella seconda metà degli anni Ottanta, quando il giovane tenente De Donno, all'epoca in forza alla compagnia del comune siciliano di Bagheria, apre lame di luce su quanto avviene nel comune di Baucina. Già, Baucina. Mancano pochi anni allo scoppio della tangentopoli milanese, vicenda destinata a mettere fine alla cosiddetta prima repubblica, ma la storia di Baucina offre gli stessi ingredienti di quello che verrà raccontato su scala nazionale a Milano e dalle Procure di mezza Italia: gli appalti finivano sempre agli stessi imprenditori, che restituivano il favore versando tangenti ai propri sponsor politici. E ancora: lavori gonfiati per succhiare opere pubbliche, controllori distratti, assunzioni pilotate e clientelari, finanziamenti pubblichi capaci di ingrassare un intero ceto politico. E non mancano gli appetiti mafiosi.

Fatto sta che dopo Bagheria, De Donno viene chiamato a Palermo, in una città devastata dal sacco edilizio, insanguinata dai morti di mafia, teatro dell'affermazione criminale dei corleonesi. È Giovanni Falcone a chiedere il trasferimento del giovane ufficiale e sarà l'allora giudice istruttore, prima di passare a Roma per un incarico ministeriale in via Arenula, a incentivare il lavoro di De Donno, ovviamente in sintonia con il suo vertice Mori.

Ma cosa viene raccontato nelle 900 pagine del dossier? Ci sono nomi di imprenditori e di presunte collusioni con la mafia.

Non solo: partendo dalla Sicilia, gli uomini del Ros scoprono il modus operandi di alcune aziende non siciliane, veri e propri colossi che operano a Roma e in alta Italia, capaci di macinare appalti per opere pubbliche in tutto il Paese. La Sicilia diventa terra di conquista, nell'ottica degli inquirenti, anche alla luce di una triangolazione messa a fuoco sin dalle prime pagine del dossier: qui, in Sicilia, come in altri spaccati regionali, c'è la mafia. Se altrove i faccenideri fanno da trait d'union tra politica e impresa, qui i mediatori sono legati alle cosche mafiose. Dunque, Sicilia granaio romano, sotto il profilo elettorale e affaristico.

Ma sentiamo il ragionamento sviluppato da De Donno e avallato da Mori e da Falcone in quel principio di anni Novanta. A più riprese, nel corso del dossier si fa riferimento a un'azienda romana attiva in quel periodo su scala nazionale, ma anche a colossi europei con base in Italia del nord che in quel periodo subiranno i colpi della tangentopoli milanese. Si leggono, nel dossier, i nomi di Salvo Lima, potente notabile della Dc in Sicilia, ex sindaco di Palermo ucciso da cosanostra a marzo del 1992, vale a dire due mesi prima della strage di Capaci; ma anche quelli di imprenditori e faccendieri che sembrano a loro agio in quella Sicilia di fine secolo. Spuntano ad esempio i nomi di un imprenditore stretto congiunto di un magistrato della Procura di Palermo, a cui per galateo istituzionale viene comunque mandato il dossier mafia-appalti, in un rapporto di fiducia reciproca e di lealtà istituzionale, almeno secondo quello che è il ragionamento svolto dai redattori dell'informativa di polizia giudiziaria.

Ma al di là dei riferimenti a soggetti che lavoravano all'ombra del sistema degli appalti siciliani, al di là delle suggestioni o dei riferimenti più o meno espliciti a presunte collusioni tra controllori e controllati o tra investigatori e potenziali target investigativi, il dossier sembra avere una straordinaria attualità anche a distanza di oltre trent'anni. E non solo per il suo contenuto o per nomi e schemi individuati, ma per l'uso che ne viene fatto. Al di là delle interpretazioni dei fatti analizzati, ciò che fa venire i brividi è l'uso che viene fatto del dossier, o meglio, il modo in cui quel materiale (ripetiamo: oltre novecento pagine) viene sistematicamente disinnescato. In che modo? Attraverso il codice di procedura penale. In modo legale, formalmente inappuntabile, ma attraverso un metodo che troverà applicazione anche in futuro in tante altre indagini su notabili, politici e manager di alto profilo.

Strana traiettoria quella della informativa, ribadisce De Donno. Pensate, in quei mesi tra il 1991 e il 1992, grazie a una parte del contenuto del dossier vengono arrestati cinque mafiosi, soggetti ritenuti di medio calibro, in una vicenda giudiziaria che sembra solo l'inizio di una lunga storia. E che invece viene abortita su nascere. In sintesi, i cinque arresti servivano ad ottenere conferme giudiziarie sulla bontà del lavoro svolto dai carabinieri, ma diventano anche un modo rapido e diabolico per disinnescare il resto del contenuto dell'inchiesta stessa. In che modo? Rendendolo conoscibile.

Offrendolo a tutti. Consegnandolo in pasto alla stampa, agli avvocati, agli stessi potenziali target di indagini e di approfondimenti. Inspiegabilmente – spiega De Donno – tutta l'informativa viene depositata agli atti del Riesame chiesto da parte dei cinque indagati finiti in manette. Avete capito bene. Secondo la ricostruzione fatta da De Donno e Mori, la Procura di Palermo (all'epoca diretta dal capo Giammanco) decide di depositare materiale inedito (zeppo nomi e rimandi a ipotesi di reato) nel corso di un procedimento che riguardava cinque soggetti di medio calabro, in un processo decisamente marginale rispetto al contenuto accennato nel dossier. Tutto senza un omissis. Questione di strategia processuale, dal momento che è sempre quella Procura a decidere in modo del tutto irrituale di spedire il dossier in via Arenula, al ministero della giustizia all'epoca retto dal socialista Claudio Martelli. Una scelta tanto irrituale, quella della Procura palermitana, da spingere lo stesso ministro guardasigilli a fidarsi del suo principale collaboratore, l'ormai ex pm Giovanni Falcone e a rispedire al mittente l'intera informativa confezionata dal Ros per i magistrati di Palermo. Una circostanza quest'ultima che venne rivelata dallo stesso Martelli, dopo la strage di Capaci e la morte dello stesso Falcone. Inutile dire che all'epoca il ministro decise di segnalare l'anomalia della strategia della Procura di Palermo anche al Csm, che – nella ricostruzione dei due autori del saggio – sarebbe rimasto pressoché inerte rispetto alla sollecitazione di via Arenula.

Una circostanza che assomiglia a tanti altri casi giudiziari che hanno scandito la cronaca degli ultimi decenni. Facciamo un salto dalla Palermo degli anni Novanta alla Napoli degli ultimi venti anni, provando a focalizzare l'attenzione su quanto avvenuto quando la Procura del Centro direzionale ha provato ad alzare il tiro della propria traiettoria, magari coinvolgendo personaggi di spessore politico e imprenditoriale. Cosa è accaduto con Calciopoli, con i grandi appalti, con le inchieste su Berlusconi? C'è stato sempre qualcuno che – non è chiaro se per negligenza o in modo doloso – ha reso conoscibile il contenuto di informative destinate a rimanere segrete in vista di ulteriori approfondimenti. Un modo di disinnescare le indagini, ovviamente in questo caso all'insaputa dei magistrati, alle spalle di pm e investigatori che sono al lavoro per approfondire ipotesi di reato e posizioni individuali.

Ricordate la storia di Calciopoli? Si indaga su Moggi, ma si assiste a uno stillicidio di fughe di notizie che costringono gli inquirenti a rincorrere la stampa, fino a rimodulare del tutto la propria strategia investigativa. Siamo tra maggio e giugno del 2006, quando un settimanale nazionale pubblica le informative di calcipoli (con tutte le intercettazioni) in tre puntate. Come a dire: ora tutti sanno tutto, se qualcuno voleva giocare sull'effetto sorpresa (magari chiedendo l'arresto dei principali indagati di Calciopoli) rimarrà inevitabilmente deluso.

Stesso discorso, quando un altro settimanale nazionale pubblicò le informative legate alle telefonate tra Lavitola e Berlusconi, a proposito dei rapporti con l'imprenditore barese Tarantini, consentendo allo stesso Lavitola di allontanarsi dall'Italia, spiazzando gli stessi magistrati titolari dell'inchiesta con una fuga di notizie dannosa per l'inchiesta stessa.

O come quando, nel corso di una inchiesta sui grandi appalti sulla sicurezza, venne – per errore – depositato al Riesame – un faldone (il famigerato faldone cinque) che conteneva le intercettazioni di Cristian Di Pietro, figlio dell'allora ministro alle infrastrutture ed ex pm di mani pulite Antonio Di Pietro, interessato agli appalti per la sicurezza (le famose caserme e casermette). Anche in questo caso, i diretti interessati ebbero modo di conoscere fatti destinati a rimanere segreti, rendendo spuntata la strategia dei magistrati che operavano nel riserbo più stretto.

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Ma torniamo al dossier mafia appalti e al livello di scontro che si crea tra forze di polizia giudiziaria per la gestione dei contenuti raccolti dal Ros. Senza entrare nel merito di vicende troppo legate al prima e al dopo stragi, basterebbe ricordare la querelle nata sulla gestione del collaboratore di giustizia Angelo Siino, che passa dai carabinieri alla finanza, per scelte funzionali alle esigenze della Procura di Palermo, ma anche alle tante altre indicazioni presenti nel dossier che vengono sistematicamente ignorate (almeno secondo il saggio scritto da De Donno e Mori). Basterebbe un esempio su tutti: a pagina 335 del dossier, si faceva riferimento a una circostanza specifica: la famiglia Buscemi abitava in via d'Amelio.

Chiaro? La famiglia di boss di cosa nostra abitava a pochi metri dalla casa della madre del magistrato Paolo Borsellino, massacrato con una autobomba il 19 luglio del 1992, un mese dopo la strage di via Capaci. Una semplice coincidenza, una delle tante che – se fosse stata approfondita -, forse la storia della lotta alla mafia (e dei suoi martiri) avrebbe cambiato corso.

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