«Comportarsi da boss? Uno stile di vita»

«Comportarsi da boss? Uno stile di vita»
di Daniela De Crescenzo
Venerdì 19 Gennaio 2018, 08:33 - Ultimo agg. 09:32
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«La baby gang è uno stile di vita: se ci sei dentro, parli, ti vesti e ti muovi secondo regole precise. Non devi sgarrare. Il tuo sogno sono le scarpe da 800 euro come quelle del boss e il tuo rapper preferito il sudamericano Ozuna, che canta Criminal». Angelo ha 22 anni, da quando ne aveva 17 è entrato e uscito dal carcere di Nisida. Adesso è a casa, al rione Traiano. Di mestiere ha fatto il ladro e non è mai stato in una banda, più che altro è un solista. Ma per la strada c'è stato e ci sa stare. E quindi, chi più di lui può maneggiare quella materia, la delinquenza dei bambini, sulla quale da anni si affannano ministri, inquirenti e sociologi con risultati finora irrisori?

E allora, proviamo a seguirlo. «Il guaglioncello che fa parte di una gang è un minorenne che spesso frequenta anche gente più grande di lui sia d'età che di esperienza di vita spiega ne copia gli atteggiamenti, ne ripete i gesti. Ci sono tanti ragazzi sfortunati, ma sfortunati assai, cresciuti in famiglie sbagliate che entrano in una gang solo per diventare qualcuno e sentirsi grandi. Camminando con un coltello o con una pistola si credono finalmente qualcuno».

Non racconta storie Angelo, quello che sa lo vede ogni giorno. Con quei ragazzini ci parla, li conosce. «Discutendo con i più piccoli ho capito che per loro il boss è un dio, che comanda e decide anche quello che deve fare la gang. E così si trasformano. Cominciano da scugnizzi che rubano sulle bancarelle più che altro per sfottere i commercianti. Poi, se sono duri abbastanza, aggrediscono qualcuno per dimostrare la loro forza. Il passo successivo è quello di trasportare droga. I più grandi li sfruttano perché un bambino di 12-13 anni con uno zainetto sulle spalle può facilmente destreggiarsi tra i posti di blocco. E allora, se è bravo, la famiglia di camorra lo coltiva: sono tanti i settori in cui un bambino può fare comodo nella malavita. E al ragazzino va bene perché avendo un clan alle spalle si sente forte».
 
Quindi dietro un violento, dietro un gradasso ci sono quasi sempre un padre e una madre che lo lasciano solo: lo dice Angelo dalla strada, lo conferma Fara Vozza che per molti anni è stata una delle assistenti sociale del Tribunale per i minorenni di Napoli e adesso lavora come psicoterapeuta. «I ragazzini delle baby gang cercano di colmare un vuoto. Se la famiglia lascia solo un bambino, lui cerca il gruppo o la droga. Se abita in un quartiere bene magari diventa un bullo o coltiva una dipendenza. Spesso, in un contesto a rischio, vive in strada dove attacca e viene attaccato».

I casi sono tanti. «Nel rione racconta Angelo c'è un ragazzino di 13 anni, è cresciuto da solo, non ha né madre né padre, vive con la nonna, che è pure malata e quindi poco può seguirlo. Dalla mattina alla sera gira armato su un motorino».Il branco ha regole precise. «In tutte spiega Angelo c'è un capo che spesso è il figlio del boss, o magari il nipote. Con il suo cognome si conquista il prestigio e ha una grande influenza su quelli della sua banda. Comanda, ma nella gang si parla, si organizzano le azioni: c'è una specie di illusione di uguaglianza».

E il gruppo colpisce a Foria o al Vomero, si infuria alla stazione della metro di Chiaiano, dove è già successo che ragazzini siano stati massacrati dai coetanei. Polizia e carabinieri stanno preparando una mappa delle zone più a rischio per distribuire i rinforzi (cento uomini) inviati dal ministro Minniti per arginare la violenza. La loro geografia sembra corrispondere con quella tracciata da Angelo che spiega: «Le baby gang generalmente partono dai Quartieri Spagnoli, da Forcella, dalla Sanità, da San Giovanni, da Scampia, da Secondigliano, da Melito. Queste sono tutte zone rosse dove si spaccia droga e dove è più facile guadagnarsi da vivere sbagliando». Dunque, si parte dai ghetti all'assalto dei baretti di Chaia, dei locali di piazza Bellini, delle vetrine del Vomero o del centro storico. Racconta Antonio Di Marco, magistrato di Corte d'appello della Procura dei minori: «Trentadue anni fa, il primo caso che segui appena arrivato a Napoli, fu quello di una mega rissa con accoltellamento. Da allora sono cambiate solamente le strade in cui si combatte: il branco insegue la movida».

Il carburante del branco è spesso l'odio. L'odio per chiunque indossi una divisa. Lo racconta ancora Angelo, con parole che sarebbe meglio non dimenticare: «Nei nostri quartieri, in quelli dove viviamo noi che sbagliamo, già quando hai quattro o cinque anni ti insegnano che le guardie sono il nemico. Non è un risultato difficile da centrare per i boss che addestrano i ragazzi alla battaglia continua con lo Stato. Il loro fine, ovviamente, è smerciare droga. Ma se la polizia ti arresta la mamma o il babbo, quando sei un bambino, quando hai bisogno di loro, tu non capisci che è giusto finire in galera perché hai commesso un reato. No. Su queste cose magari rifletti da grande, troppo tardi».

A Napoli, lo dicono le statistiche, c'è il più alto tasso di reati associativi tra i minori, lo 0,8 per cento ogni centomila abitanti. E il record degli omicidi commessi dai ragazzini: l'1,5 per cento rispetto allo 0,6 per cento della media nazionale. Dati che fanno lanciare a Samuele Ciambriello, presidente dell'associazione La Mansarda e garante per i detenuti in Campania una proposta destinata a far discutere: «I cosiddetti baby boss hanno la morte dentro. Sono adolescenti a metà. Non hanno mai conosciuto un mondo diverso, fatto di cultura, valori, sport, affetti giovanili. Qualche adulto, in carcere, mi ha detto: Questi commettono reati senza investire quello che guadagnano. Vogliono tutto e subito. Qui e ora. La morte è l'unica pena che conoscono. Se hanno deciso di uccidere, lo fanno. Sparano nel mucchio e spesso non sanno neppure usare una pistola. Occorre usare con loro altri metodi di intervento educativo e valoriale. Si entra in carcere minorile per reati gravi, ma molti sono compiuti da gruppi: allora introduciamo il predominio di branco come un aggravante».

 
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