«Pensava che Carla fosse cosa sua
per questo motivo le diede fuoco»

«Pensava che Carla fosse cosa sua per questo motivo le diede fuoco»
di Viviana Lanza
Mercoledì 22 Febbraio 2017, 08:57
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«Carla è cosa sua». Il giudice Egle Pilla usa questa espressione per spiegare i motivi che un anno fa portarono Paolo Pietropaolo, 40enne di Pozzuoli, a dare fuoco alla ex compagna Carla Caiazzo. «Pietropaolo - osserva il giudice nelle motivazioni depositate a tre mesi dalla sentenza che in primo grado, con rito abbreviato, ha condannato l'imputato a 18 anni di reclusione - ha agito per uno spirito di possesso che travalica la mera gelosia, e con una tale determinazione e ferocia da esprimere un atteggiamento drammaticamente punitivo che va al di là dell'animus sotteso ai delitti passionali». Il processo ha scavato nel passato di Paolo e Carla, nella loro relazione «sofferta e difficile», terminata quando aspettavano una bambina e degenerata con l'incapacità di lui di accettare che lei avesse ritrovato la felicità accanto a un altro uomo.

«Tutti questi fatti sono ingiusti per Pietropaolo, per le convinzioni dell'imputato e per la sua sensibilità personale. Ma - osserva il giudice - nell'attuale momento storico culturale in una collettività che attribuisce sempre maggiore rilevanza e dignità alla libertà di autodeterminarsi e di scegliere anche per una donna, questi fatti sono sicuramente dolorosi e fonte di sofferenza per chi li subisce ma non possono considerarsi ingiusti in quanto contrari alle regole della comune convivenza». Paolo agì per rivendicare un diritto di proprietà in «una concezione proprietaria della donna che legittima un uomo anche ad usare violenza sulla sua compagna». Per lui era «immaginabile anche dar fuoco alla sua donna se lei va via con un uomo con il quale ha anche intrattenuto una relazione sentimentale», perché «Carla si è rivelata a lui una rosa con le spine, perché ha amato un altro uomo, perché sorride pur avendolo lasciato, perché è felice della bambina che ha in grembo anche se lui non gli è accanto. E per questi motivi va punita e le va dato fuoco». Paolo Pietropaolo è stato condannato con l'accusa di tentato omicidio aggravata dai motivi futili e abietti («Spregevoli - li definisce il giudice nella sentenza - inaccettabili e ingiustificabili e ancora più inaccettabili alla luce del comune sentire nell'attuale momento storico culturale»), dalla premeditazione («Asseriva che se l'avesse incontrata non sapeva che tipo di reazione avrebbe potuto avere...» secondo la testimonianza di un'amica), e dalla crudeltà (abbandonò Carla tra le fiamme rivolgendole un ghigno, «una risata perfida» ricorderà la vittima). Il primo febbraio dello scorso anno Carla, all'ottavo mese di gravidanza, fu convinta con una scusa a incontrare Paolo. Fu picchiata da lui, trascinata fuori dall'auo, afferrata alla gola nel tentativo di soffocarla. E poi data alle fiamme con un accendino e una miscela di alcool gettata su capelli, volto e tronco. Se Carla e la sua bambina sono vive è per un miracolo.

Pietropaolo, condannato in primo grado con abbreviato a una condanna di tre anni più severa di quella chiesta dalla pubblica accusa, per il giudice non si è mai realmente pentito. «Il pentimento non è autentico» scrive il giudice Pilla che non ha creduto al pianto di Pietropaolo e alle sue dichiarazioni, ritenendolo più preoccupato di dover trascorrere un lungo periodo di dentenzione e più sinceramente affranto per il senso di colpa nei confronti della madre. Quanto al vizio di mente, per il giudice «non vi è prova dell'esistenza di un disturbo di personalità grave e pervasivo» né degli effetti da sovradossaggio di psicofarmaci. E poi c'è la piccola Giulia Pia, la figlia di Paolo e di Carla. Il giudice ha parole anche per lei: «Giulia Pia ha voluto prepotentemente vivere, ad ogni costo, nonostante tutto. E Pietropaolo quella miscela incendiaria l'ha gettata dando fuoco a Carla ma anche alla sua bambina». «È difficile - conclude - immaginare che un tentato omicidio possa esplicarsi in danno di una donna all'ottavo mese di gravidanza in una forma più atroce».
 
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