Massimo, Giusy e gli altri
storie ai margini della città di Napoli

Massimo, Giusy e gli altri storie ai margini della città di Napoli
di Davide Cerbone
Sabato 21 Gennaio 2017, 14:00 - Ultimo agg. 14:19
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«Scusate il disordine», quasi si mette in cerimonie mentre schiude la porticina di cartone del piccolo vano ricavato in un angolo, al riparo da occhi indiscreti, tra i tubi innocenti e le colonne di marmo a ridosso della Galleria Umberto. All’inizio pensi che sia una battuta, invece no: lui fa sul serio. Come se questo tugurio fosse veramente una casa. La sua casa. E bastano poche parole a capirlo, che per Antonio e la sua compagna Giusy (i nomi sono di fantasia, ndr), che da sette mesi tutte le sere prendono sonno qui, la differenza non è poi tanta. «Prego, accomodatevi». Quando metti il naso oltre la soglia, davanti agli occhi ti si para un mosaico dell’essenziale fatto di buste, scarpe, indumenti e coperte. Due esistenze riassunte in quattro metri. «Andare in un dormitorio? Non ci penso: dobbiamo dormire con altre 5-6 persone. Almeno qui abbiamo la nostra privacy», spiega lui, 55 anni vissuti pericolosamente, gli ultimi otto per strada. «Mi drogavo da quando avevo 14 anni, ho commesso dei reati e ho perso tutti gli affetti. Ma che ti sei rovinato te ne rendi conto solo dopo», recita il mea culpa Antonio, la barba lunga, il viso segnato dalla fatica di vivere. 

Subito dopo, però, rilancia: «Da cinque anni sto rigando dritto: niente droga e reati. L’unica cosa che mi resta è la dignità e non voglio perderla». La sua donna, 44 anni che sembrano almeno dieci in più, lo ascolta in disparte, nella penombra del colonnato. «L’altra sera qui è venuto il cardinale Sepe a portarci da mangiare: ci ha fatto piacere, ma noi abbiamo bisogno di un tetto. Ci sono 200 chiese chiuse: perché non le aprono a chi non ha un tetto?», domanda. E ti racconta di quelle sere in cui le baby gang dei Quartieri li eleggono a bersagli: «Quei ragazzini ci tiravano le bottiglie addosso, io mi sono avvicinato e ho detto: “Ma che fate? Già sto inguaiato, vi ci mettete pure voi?”. Sono andati via, ma intorno a me erano scappati tutti». Sono passate da poco le 7 e il “condominio Galleria” comincia a popolarsi. Michele, 55 anni, ha il volto distinto del vicino di casa. Sua moglie, che sposò trentadue anni fa, porta al guinzaglio un cagnolino. Diresti: una coppia come tante. E invece: «Lavoravo in una ditta di pulizie, ma chiuse nel 2000. Da allora mi sono arrangiato. Avevo affittato una casa a Materdei, un mese non riuscii a pagare il pigione e mi minacciarono». «Ma io - sottolinea la differenza - non mi reputo barbone. Noi siamo caduti in disgrazia, è diverso. Ma tutti i giorni alle sei ci svegliamo e vediamo come guadagnarci 10-15 euro. E quando abbiamo 20 euro, andiamo in una pensione», racconta. Ma davanti ai suoi occhi il futuro è buio. «Prima stavamo sotto il colonnato di piazza Plebiscito, poi ci siamo spostati qui. Siamo una dozzina, ma è dura. Quando arrivano indumenti e scarpe si scatena una ressa, noi ci chiamiamo fuori. I figli? Ne abbiamo due, ma neanche loro sanno dove vivere. E ai servizi sociali del Comune ci andiamo tanto per andare».

Sul lato oscuro della Galleria miseria e nobiltà si specchiano l’una nell’altra. Dall’altra parte della strada si staglia la sagoma austera del San Carlo, dove lunedì s’è celebrata la messa laica per Maradona, nato povero in un Sud lontano e incoronato re proprio qui. Da laggiù, però, le coperte e gli scatoloni a stento s’intravedono. «Diego ha un cuore grande, sarebbe bello se ci aiutasse», sospira Massimo, che ha 33 anni ed è venuto i suoi ex compagni di sonno. «Stavo qua fino a pochi giorni, adesso abito alla Sanità. Facevo il marinaio alla Deiulemar, guadagnavo milleduecento euro al mese. Poi l’azienda è fallita e ho fatto questa fine. Adesso ho trovato un lavoro in una pizzeria a via Chiaia, ma il titolare non paga. Grazie a Dio ho trovato una coppia che mi aiuta, ma se fosse per lo Stato avrei voglia di campare per strada». Una sfiducia che Roberta Gaeta prova a scalfire. «Il fenomeno è in grande crescita e lo scenario è cambiato - spiega l’assessore comunale alle Politiche sociali -.

Ci sono molti stranieri, ma anche gli italiani caduti in stato di povertà sono aumentati. Per questo stiamo strutturando una programmazione nell’ambito del piano povertà inserito nel Pon metro, con una serie di azioni di inclusione studiate sulle esigenze individuali per gli anziani oltre i 65 anni e quelli che sono nel nostro centro di prima accoglienza. Oggi una Casa dei senza dimora accoglie sei persone in un bene confiscato a Fuorigrotta e tra poco saranno pronti altri undici mini-appartamenti. Insomma, la sofferenza c’è ma noi non stiamo a guardare». Proprio di programmazione c’è un gran bisogno, secondo il professor Carlo Antonio Leone, presidente Fondazione Massimo Leone, che dal ‘94 si dedica ai senza dimora. Studio. «Ci occupiamo di studiare il fenomeno, ma soprattutto approntiamo un percorso di riabilitazione e reinserimento per far recuperare loro la dignità. Quello che non si deve fare sono gli interventi spot: serve programmazione e un’attenzione costante anche da parte dei media». Antonio Mattone, portavoce della Comunità di Sant’Egidio, sfata un mito diffuso: «Soprattutto per la prima accoglienza, si può fare di più: a Napoli abbiamo circa 1500 senza fissa dimora e appena 200 posti letto. Ma - ammonisce - non diciamo che rifiutano l’accoglienza: chi rifiuterebbe mai un tetto? Piuttosto, c’è un disagio psichiatrico diffuso, ci sono vite precarie e dolorose per le quali manca un percorso di accompagnamento. Serve un approccio meno superficiale al problema».

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