Avere 20 anni e una valigia:
«Da grande farò l'emigrante»

Avere 20 anni e una valigia: «Da grande farò l'emigrante»
di Nando Santonastaso
Lunedì 11 Dicembre 2017, 08:37 - Ultimo agg. 12 Dicembre, 09:33
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Per anni è stato un fenomeno dimenticato, anzi un non-fenomeno. La fuga dei cervelli dal Mezzogiorno era ritenuta fisiologica, quasi indispensabile. Cosa c'era di male nel vedere giovani laureati o diplomati affermarsi altrove, al Nord o in Europa, o negli Stati Uniti? Nulla perché li si considerava delle fantastiche eccezioni, una sorta di ambasciatori dei saperi meridionali nel mondo o giù di lì. Quasi dei privilegiati, formatisi come i vecchi secchioni sui libri di scuola o dell'università. O diventati abilissimi in mestieri tradizionali, spesso tramandati da genitori e nonni (si pensi ai pizzaiuoli), altrettanto spesso imparati con il più classico dei fai-da-te. Ce ne siamo accorti poco perché non erano tantissimi. Facevano notizia solo per le loro performancers professionali o lavorative. Erano un esempio, non una regola.

Quel tempo e quella peculiarità sono finiti per sempre. Basta leggere i tanti, autorevoli contributi pubblicati in questo inserto - che fa da cornice di approfondimento alla giornata organizzata oggi dal Mattino al Teatro nazionale Mercadante con l'intervento introduttivo del premier Paolo Gentiloni -, per capire perché. E per convincersi che la fine di un'epoca non ha bisogno di stravolgimenti choc o imprevedibili: basta anche una goccia al giorno per scavare un fossato tra prima e dopo. E la goccia delle decine di migliaia di ragazzi che ininterrottamente abbandonano il Mezzogiorno è diventata ormai un oceano. Duecentomila, dice la Svimez, che come sempre mette il dito nella piaga senza tema di smentite (era accaduto lo stesso quando lanciò l'allarme sul crollo del Pil meridionale, solo pochi anni fa: tutti a darle addosso, poi le scuse). L'oceano fnalmente si vede, verrebbe la voglia di dire. Perché «finalmente» significa che è arrivato il momento della consapevolezza. Non sono più le eccezioni a fuggire, sono diventati - appunto - la regola. Secondo una delle tante inchieste dedicate all'argomento (nel caso specifico Le migrazioni qualificate in Italia dell'Istituto di studi politici San Pio V e del Centro studi e ricerche Idos), «sei giovani su dieci lasciano l'Italia mentre si riduce il numero degli italiani che rimpatriano». In questa percentuale l'incidenza dei giovani meridionali non è facilmente definibile ma basta compararla al dato Svimez per capire che non sono la minoranza.

Il contraccolpo sul piano economico per un'area ancora depressa, come il Mezzogiorno, è enorme. Trenta miliardi in fumo, sempre secondo i dati Svimez, che ha calcolato la spesa di istruzione pagata dallo Stato a ogni giovane e l'ha moltiplicata per il numero dei giovani partiti. Ma ci sono anche altre voci al capitolo costi-benefìci che vale la pena di approfondire. I dati di AlmaLaurea ad esempio: a fine 2015 il tasso di disoccupazione dei laureati triennali a un anno dalla laurea, ha ricordato di recente Marialuisa Stazio sulla rivista online «Economia e politica», «era del 20,8% e la loro retribuzione media di 1.104 euro al mese. Il tasso di disoccupazione dei laureati magistrali sempre a un anno dalla laurea era poco inferiore, il 19,8% e la loro retribuzione media di 1.153 euro al mese. Il fenomeno dei laureati triennali e magistrali che trovano all'estero un'occupazione adeguata ai loro titoli di studio è nella maggior parte dei Paesi Ocse collocato nel campo della circolazione dei cervelli. Ma la migrazione istruita, quella cioè con la maggiore possibilità di scelta, non si dirige verso l'Italia».

In altre parole, se il fenomeno dei giovani che abbandonano il Sud o il Paese venisse riequilibrato dall'arrivo di altrettanti stranieri lo scenario sarebbe di gran lunga meno angosciante. La diffusione e anzi la contaminazione di saperi ed esperienze formative è sempre una garanzia, come insegna la positiva esperienza di Erasmus, forse il programma europeo che ha dato i maggiori risultati anche se non sempre è stato colto come un'oppportunità concreta di mettersi in gioco. «Invece - dice Massimo Inguscio, presidente del Cnr - è proprio questo l'aspetto del problema che deve preoccuparci di più: se il Mezzogiorno che pure ha eccellenze nel sistema delle università non riesce a trattanere i suoi laureati o ad attrarre cervelli di altri Paesi il rischio di un depauperamento culturale oltre che di una desertificazione demografica è decisamente reale».

La fuga insomma sembra sempre più senza ritorno. Ed è diventata, soprattutto, un leit motiv, quasi una scelta di vita, un'opportunità non un rimedio. I ragazzi del Sud che si spostano durante gli studi e dopo la laurea, hanno percentuali importanti: i pugliesi sono 50mila, quasi il 40% dei 128mila che in quella regione stanno tentando di laurearsi; altrettanti i siciliani anche se incidono in maniera leggermente inferiore agli iscritti ai corsi di laurea nelle università dell'isola (il 32%); circa 36mila i campani che però sono solo il 17% degli universitari. «È la nuova emigrazione meridionale» l'ha definita l'ex rettore dell'università di Palermo Roberto Lagalla.

Il fenomeno ormai è abbastanza chiaro: mancanza di lavoro, sistemi urbani poco accoglienti, formazione universitaria non sempre al top, meritocrazia spesso inesistente, rapporto laurea-stipendi decisamente insoddisfacente. Dice una «tosta» come l'assessore al Lavoro della Regione Campania, Sonia Palmneri, che su questo fronte è impegnata quotidianamente e con risultati non proprio trascurabili: «Dobbiamo chiederci con onestà intellettuale perché tanti giovani scelgono di immaginare la loro vita altrove. Io ne incontro molti nelle università e le risposte sono essdenzialmente due: voglio vivere un'esperienza di respiro internazionale; vado fuori perché non trovo lavoro qui. In entrambi i casi hanno necessità che le istituzioni favoriscano opportunità occupazionali e ambienti innovativi e tecnologici».

 


Giusto, quasi scontato. Le voci dei giovani invocano proprio questo. Prendete Ilaria, 27 anni, laureata in pedagogia: ha provato la carriera universitaria ma allo stesso bando una volta è arrivata seconda, l'anno successivo non era nemmeno idonea... «Ho fatto e continuo a fare mille lavoretti - dice al Mattino online -, quasi tutti al nero: lezioni private, barista, baby sitter, un po' di tutto insomma. Ma non sono mai riuscita ad avere un vero contratto. L'unico è stato quello per un mese all'aeroporto di Capodichino, ma sempre niente di attinente con i miei studi. Per me il lavoro a Napoli è poco professionalizzante».
Stefania Arpaia, 25 anni, aversana, anche lei laureata (in Comunicazione all'università Suor Orsola Benincasa), avrebbe voluto spendere i suoi studi facendosi un nome nella comunicazione e nel marketing. E invece... «E invece per trovare lavoro sono dovuta emigrare a Barcellona, da marzo lavoro come coordinatore amministrativo e docente di lingua italiana presso la scuola di lingua Amove della città catalana». Non si è arresa, però, Stefania: ha continuato a inviare curriculum vitae a tutti e finalmente ha fatto centro. A chiamarla è il Gruppo Amico Bio di Capua, che opera nell'ambito della ristorazionee e della produzione biologiche, e che le affida un lavoro adeguato ai suoi studi. «Per una volta evidentemente andare all'estero è servito a darmi delle referenze per poter tornare a casa», confessa. Marco Mancaniello, invece, 30 anni, laureato in Scienze infermieristiche, si considera il classico «schiavo dei nostri tempi». Perché lavora anche 30 ore di fila per 5 euro all'ora «quando arrivano», dice. Chi lo conosce ne parla in ternini di assoluta professionalità, ma il lavoro in nero è ormai la sua dimensione quotidiana. Anche Valeria che ha scelto Scienze politiche, a 28 anni non ha ancora un contratto: tira avanti facendo la hostess e sperando che il concorso del dottorato premi la sua serietà. «Ma qui a Napooli è dura, forse più che altrove».
Amarezza, disincanto, spesso rassegnazione. La sensazione, ascoltando le tante storie raccolte e nemmeno tanto difficilmente tra i giovani napoletani, è che tutti se avessero anche una sola disponibilità di lavoro al Nord o all'estero non ci penserebbero su due volte. E se fate un giro tra le famiglie dei 25enni o dei 30enni che conoscete, vi sorprenderà forse sapere che anche i genitori ormai la pensano così. Social, tablet e Skype sono ormai diventati familiari anche a chi pensava di non riuscire mai a connettersi con i nuovi strumenti della comunicazione e o del digitale. Andare a Milano o a Londra non spaventa affatto, non a caso è diventato uno dei temi più ricorrenti tra i giovani e i loro familiari. Chi difende il territorio di appartenenza scivola sempre di più in minoranza. Come Francesco Spada, classe 1993, iscritto al sesto anno di Medicina all'Università della Campania. L'università di Vienna gli aveva proposto di trasferirsi in Austria dove era già stato per un breve corso di studi: «Li aveva colpiti la mia disponibilità ad aiutare il prossimo con tutto me stesso, un'esperienza bellissima che ho imparato a fare quand'ero educatore all'Azione cattolica. Ma ho rifiutato perché so che i tempi non sono ancora maturi per certe scelte. E perché penso che anche qui potrò diventare un buon medico».
Già, ma quando bussi alla porta del «che fare?» per bloccare l'emoragia non tutti sanno cosa risponderti. La Palmeri snocciola dati importanti per la Campania dimostrando che la politica degli annunci forse è morta e sepolta. Vediamoli: «Con la misura europea di Garanzia Giovani abbiamo realizzato oltre 18 mila assunzioni, 30 mila tirocini aziendali, 14 mila percorsi di qualificazione formativa, 3.500 inserimenti in servizio civile. Ma soprattutto siamo primi in Italia e lo dico con una punta di orgoglio per numero di neoaziende nate da giovani neet. Sono 282, per un valore di oltre 10 milioni di euro». L'assessore ha annunciato che le visiterà tutte e intanto si compiace di numeri altrettanto significativi: ci sono aziende in Campania che al bacino dei neet si sono abbeverate a piene mani, con assunzioni tutt'altro che sporadiche, anche di oltre 20 unità e con contratti quasi sempre a tempo indeterminato. Parliamo di aziende di software, di impiantistica, di formazione: poche ancora rispetto ai grandi numeri dell'imprenditoria ma già molte rispetto agli indici di indifferenza o scetticismo che hanno accompagnato la misura Ue per gli under 29 che non studiano né vogliono trovare un'occupazione. E senza andare troppo lontano si scopre anche che sempre ad iniziativa della Regione anche i giovani professionisti che non possono appartenere ad altra categoria se non a quella degli Ordini di iscrizione, non sono più figli di un Dio minore, come è spesso avvenuto in passato: 17 milioni sono stati stanziati per la creazione di nuovi studi professionali, il sostegno a percorsi di formazione ed aggiornamento, per percorsi di praticantato. «Non perdiamo di vista neppure l'opportunità del ricambio generazionale in agricoltura, attraverso finanziamenti per l'avvio delle attività dei giovani fini a 40 anni, per oltre 140 milioni. Insomma oggi in Campania ciascun giovane ha una dote che si traduce in incentivi all'assunzione e ad ogni altra forma di sviluppo delle proprie capacità, comprese le start-up innovative. Molto spesso però ciò che difetta è la conoscenza delle opportunità».
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