«Business 4.0, la sfida digitale».
Imprese di fronte al cambiamento

«Business 4.0, la sfida digitale». Imprese di fronte al cambiamento
di Paola Rosa Adragna
Mercoledì 1 Marzo 2017, 11:24 - Ultimo agg. 2 Marzo, 11:08
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La quarta rivoluzione industriale è iniziata. Superato il vapore, l’elettricità e l’informatica è arrivato il momento dell’automazione. Le macchine non solo lavorano al posto dell’uomo, ma sono intelligenti, connesse tra loro e a internet. Applicazioni, sensoristica, big data, social network. In questo scenario, inevitabilmente, si modifica anche il modo di produrre beni e servizi. E l’imprenditore deve cambiare pelle, e mentalità, per non soccombere e rimanere competitivo sul mercato.

«Il digitale è un’opportunità di sviluppo e di crescita, ma bisogna ripensare completamente l’idea di business», spiega Gaetano Cafiero, presidente della sezione Ict dell’Unione Industriali di Napoli, che racchiude tutte quelle attività - grandi multinazionali o piccole e medie imprese - che operano in tutti i campi della tecnologia: dalle telecomunicazioni al trasporto, passando per la gestione della sicurezza o dei beni culturali. 
 

Il 4.0 richiede una visione allargata della produzione e del mercato. Ma è sbagliato pensare che il processo interessi solo le aziende che operano nel campo del digitale stesso. Il 4.0 è un nuovo paradigma che coinvolge l’intero ciclo di vita del prodotto: dall’ideazione al confezionamento, dalla vendita alla raccolta dati. E si può applicare a qualunque tipo di azienda, dall’industria metalmeccanica alla cantieristica, dall’agroalimentare alla fornitura di servizi. 

Basti pensare a Uber, dove un uso massiccio del digitale per coordinare autisti e passeggeri ha permesso la trasformazione del concetto di mobilità, impensabile fino a poco tempo fa. «Gli scenari - continua Cafiero - sono infiniti. Provate solo a immaginare cosa si potrebbe fare se lo scaffale di un supermercato o le confezioni fossero dotati di sensori capaci di acquisire informazioni su come un cliente interagisce con il prodotto».

I Paesi che hanno investito sul digitale hanno avuto una crescita più rapida. In Italia si fatica ancora. «Abbiamo sempre fatto così, perché dobbiamo cambiare?», è la frase con cui chi vuole innovare un’azienda si scontra più spesso. È successo anche a Susanna Moccia, export manager della fabbrica della Pasta di Gragnano: «La necessità di cambiare spesso non è avvertita, ma è fondamentale se non si vuole essere tagliati completamente fuori dal mercato». Nella sua azienda il prodotto resta artigianale, ma è stato modernizzato il processo di confezionamento. Un’innovazione che ha velocizzato la produzione e incrementato le vendite, vincendo definitivamente le resistenze di quelli che all’inizio non credevano nel 4.0.

Uno dei problemi da affrontare è sicuramente la conoscenza: l’imprenditore che non sa può perdersi tra le mille offerte delle aziende Ict, ma affinché il cambiamento porti benefici deve capire quali aspetti sono funzionali al suo prodotto e alla sua impresa. Qui entra in gioco il piano industria nazionale, approvato a settembre 2016 dal governo, che prevede non solo obiettivi e incentivi, ma anche e soprattutto formazione. Verranno istituiti sette Competence centre, uno dei quali sarà proprio all’Università Federico II, e diversi Innovation hub, sportelli dove tra imprese, centri ricerca e finanziatori, l’imprenditore può trovare gli strumenti giusti per adeguarsi all’industria che cambia.
L’altro tema è quello legato ai posti di lavoro che si perdono perché le tecnologie digitali consentono di automatizzare molti processi. «Sicuramente - commenta Cafiero - diminuirà la manodopera non qualificata, ma cresceranno le opportunità per i lavoratori specializzati, di cui c’è carenza ora in Italia». Secondo una ricerca Assolombarda le figure sempre più richieste saranno quelle in grado di trattare e analizzare dati, progettare applicazioni e automatizzare i processi. Con conoscenza di lingue straniere, applicativi software e linguaggi di programmazione. In poche parole anche il lavoro si trasforma.

Con possibilità per i vecchi assunti. È il caso della O.Me.Sud s.r.l., un’azienda metalmeccanica napoletana che ha avviato la sua trasformazione formando i propri operai. «Lavoravamo già con macchine automatizzate - racconta il direttore generale Gaetano Liguori - ma avendole messe in rete abbiamo reso possibile il loro coordinamento sotto la supervisione di operai specializzati». L’implementazione dei sistemi è andata di pari passo con la formazione: i vecchi operai specializzati su macchine utensili oggi sono in grado di programmare apparecchiature automatiche e supervisionare il loro collegamento. «Questo avanzamento però - continua Liguori - non è imposto: invogliamo i lavoratori a intraprendere un processo di crescita non solo economico, ma personale. Il cambiamento così è condiviso».

Certo non tutti i lavoratori potranno essere riconvertiti, ma Cafiero ha le idee chiare: «Anche il nostro sistema di welfare dovrà cambiare. L’industria 4.0 comporta un’uscita di personale dal ciclo produttivo. Cosa facciamo di quelle persone? Bisogna trovare un modo di supportarli in questo processo». Un’idea condivisa anche oltreoceano e che ha trovato voce nella provocatoria proposta di Bill Gates negli Stati Uniti: creare un fondo di supporto per chi è uscito definitivamente dal ciclo produttivo, tassando l’automazione. Ben due volte: sia chi produce i macchinari, sia chi li utilizza nella propria attività.

Imprenditori, lavoratori e società devono essere pronte al cambiamento, ormai diventato inevitabile. «Prima ce ne renderemo conto - conclude Cafiero - meno sarà traumatico. E ne potremmo trarre grandi benefici»
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