Viaggio per la vita in Togo | Giorno 8. Qui la vita si vive

Viaggio per la vita in Togo | Giorno 8. Qui la vita si vive
di Nunzia Marciano
Venerdì 10 Agosto 2018, 15:35 - Ultimo agg. 11 Agosto, 09:48
6 Minuti di Lettura

“Ti do dei soldi con immenso piacere, così sono sicura che arrivano a chi ne ha davvero bisogno”: è la certezza di chi dall’Italia affida soldi utili a salvare una vita in Africa, facendo beneficenza, direttamente nelle mani di chi quei soldi li porterà fin qua giù. Perché non è detto che arrivino, non è detto che poi quella beneficenza venga fatta davvero. Eccolo il grande inganno africano; eccola la grande truffa italiana ma chiaramente non solo tricolore. Quella che a leggere sulle versioni online dei giornali italiani fa ancora più rabbia quando ci si trova nel cuore dell’Africa profonda, dove una vita “costa” 12€: questo è il costo di un ricovero, delle analisi e dei medicinali. Perché qui anche da ricoverati, si pagano i medicinali. E qui un’italiana che aiuta davvero è una risorsa preziosa, così preziosa che il frate le chiede il numero, “Nel caso, molto probabile, che ce ne sia bisogno”. E infatti il giorno dopo ce ne sarà già di nuovo bisogno. Dall’Italia arrivano le richieste per poter aiutare i bambini che vivono nel centro di accoglienza gestito da Suor Simona: “Sì, certo che si può: c’è un conto corrente apposta”. Ecco, c’è un modo affinché i soldi arrivino davvero. E non finiscano nelle tasche di certi italiani che ne sono già strapiene. Che paese del cavolo l’Italia. Che paese del cavolo il resto del Mondo, quello giusto. Le eccezioni ci sono è chiaro: questo missione lo è, l’associazione Life and Life, tra i cui fondatori c’è Enzo Facciuto, lo è. Ma le eccezioni non fanno le regole. Le eccezioni restano eccezioni. 
 

 

“È che in Togo siamo buoni, pacifici”: Herman è infermiere al Saint Jean De Deiu da 10 anni. Di lui aveva ben parlato Facciuto, che gli ha mandato anche un pc e due scatole di sigari. “Il nostro non è un buon governo”, fa eco ad Agnese, “ma noi non siamo un popolo violento, non ci ribelliamo con la forza, non siamo come gli altri paesi dell’Africa limitrofi”. Herman è anche un imprenditore agricolo. Ha una moglie e tre figlie femmine. Ma all’appuntamento per la birra a fine turno, con tutta la missione italiana, si presenta con un’amica. Herman parla inglese: comunicare è semplice. Spiega con grande naturalezza il rapporto uomo-donna, confermando ovviamente la normalità dell’avere più mogli, anche se una donna non può avere più mariti, anche se la maggior parte della popolazione in Togo è cristiana, come gli fa notare Germana: “Ma quella è religione, questa è la nostra tradizione. Qui è l’uomo che porta avanti la famiglia, anche se la donna lavora. Mentre i bambini non lavorano mai: qui è un crimine, in tutta l’Africa lo è”. E infatti, non si vedono in giro bambini che lavorano. “Nella famiglia l’uomo e la donna non sono allo stesso livello, nella società sì invece: a scuola o sul posto di lavoro siamo esattamente uguali”. L’esatto contrario di quanto spesso avviene in Italia, insomma. “E tu?”, la domanda, “tu hai intenzione di avere una seconda moglie?”. Ride. “Oh, io non lo so. Forse”. Era un sì ovviamente. La domanda successiva è quasi spontanea: “Ma tu ami tua moglie?”

La risposta sorprende. Ci si sarebbe aspettato un ipocrita “Ma sì certo!”, come spesso succede in Italia, avallando questa credenza assurda che si possano amare più donne allo stesso tempo e forse pure alla stessa maniera, pur tradendo, chiaramente. E invece no, invece la risposta è onesta, per quanto possa esserlo: “Beh, se un uomo sceglie un’altra donna, vuol dire che con la prima non sta più bene... Che ci sono problemi che non si risolvono, no?”. Sì. Nel locale c’è una ragazza bellissima, così bella che è impossibile non notarla. È africana ma ha tratto quasi orientali per quanto delicati. Qui la bellezza incanta, impossibile non notarla. Quasi quanto incantano le storie di un popolo così lontano. La serata è con qualche birra in più in onore di Chiara, la studentessa 22enne di Modena che dopo 18 giorni di missione torna a casa. Chiara non sa ancora cosa vuole fare da grande. Chiara è talmente giovane che può permettersi di non saperlo. Può permettersi di avere tempo per decidere, portandosi dietro l’accento modenese ed un ottimismo contagioso, persino per chi qui riesce ad essere negativo. Chiara è conosciuta da tutti in ospedale: il suo biglietto da visita è stato un defibrillatore regalato da sua madre, medico anche lei. Chiara torna a casa, non sa se tornerà in Togo. Per ora la sua testa è alle meritate vacanze. L’indomani il risveglio è più lento e pesante del solito: la colpa può essere del Malarone e dell’aria così umida e pesante a sua volta. “È per questo che hanno le narici larghe”, spiega Ida. Ed è per questo che due italiane in attesa degli interventi fuori la sala operatoria fanno a gara di spossatezza: oggi è una settimana dall’arrivo, sembra passato un secolo. Qui la vita in certi casi scorre così lenta e così senza nessuna frenesia.

Un giorno o una settimana non fanno la differenza qui, nel bene e nel male.
Qui esistono delle regole ferree che impongono procedure inutili anche per un semplice ricovero. Inutili e dispendiose ma guai a volerle cambiarle. Qui esiste forse la vera resilienza, che in psicologia, è la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Qui le difficoltà vere sono congenite alla nascita. Qui gli eventi traumatici sono la normalità. Qui non ci si interroga sul senso della vita. Qui la vita la si vive. Punto. E se si imparasse a fare anche solo questo da questa terra, sarebbe già una grande conquista. Capire che “difficile”, sarà sopravvivere, per una bambina di 8 anni arrivata con una massa, arrivata dopo troppo tempo e che stamattina è stata ore sotto i ferri dei chirurghi, una bambina che “Speriamo che dalla biopsia non esca che ha un cancro maligno”, dice Ida, “altrimenti dobbiamo toglierle la mascella”. Ecco questo è difficile: i drammi personali qui sembrano così piccoli seppur presenti. Qui si ridimensiona quasi tutto, o almeno si è sicuri di doverlo fare, e ci si chiede cosa succederà una volta lontani dall’odore forte di queste sale operatorie così precarie, cosa si penserà e come si guarderà la vita lasciata a casa. Già, chi lo sa... 

© RIPRODUZIONE RISERVATA