Pistole in faccia, schiaffi e insulti:
«Ambulanze, è guerra ogni giorno»

Pistole in faccia, schiaffi e insulti: «Ambulanze, è guerra ogni giorno»
di Paolo Barbuto
Lunedì 28 Maggio 2018, 23:32 - Ultimo agg. 29 Maggio, 11:12
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I racconti si susseguono inesorabili: schiaffi, pugni, insulti, pistole sul muso. L’ospedale Pellegrini, nelle parole di chi ci lavora, è un girone dell’inferno trasferito nel cuore della Pignasecca. 

Il medico ha lo stesso sguardo desolato di tutti gli altri astanti, si avvicina, chiede con garbo la parola: «Ha ragione chi dice che Napoli non è paragonabile a Raqqa: lì, almeno, chi lavora in ospedale sa di essere in guerra, magari indossa un giubbotto antiproiettile o chiede aiuto ai soldati. Qui invece viviamo in guerra ma siamo senza protezione. È vero, Napoli non è Raqqa. È peggio...». 
 


La questione-Raqqa va spiegata. Il paragone fra Napoli e la città siriana che è stata capitale dell’Isis, venne utilizzato dal presidente dell’Ordine dei medici Silvestro Scotti, in seguito a un presunto episodio di violenza ai danni di un’autoambulanza. Quel paragone fu respinto al mittente con sdegno dal sindaco di Napoli e considerato fuori luogo dal questore della città. Ecco perché il dottore lo sfodera in questo momento, con rabbia, all’indomani del sequestro di un’ambulanza.

Il dottore si allontana sconsolato. Sorride, si presenta con nome e cognome ma spiega di dover restare necessariamente una voce anonima, perché le regole severe del mondo ospedaliero prevederebbero un permesso ufficiale per parlare con la stampa. Il medico riceve un saluto affettuoso da Antonio Eliseo, sindacalista Uil-Flp, che può parlare senza nascondersi perché il ruolo glielo consente. Così alla fine si decide che ogni parola della giornata sarà stata detta da lui che da anni denuncia l’invivibilità del Pellegrini.
 
Si parte, inevitabilmente, dai grandi temi: la mancanza di personale, le difficoltà generate dal nuovo assetto ospedaliero della città, i problemi di chi non riesce a trovare nemmeno le garze per medicare un graffio. Bisogna ascoltare con pazienza, condividere pensieri e sfoghi prima di arrivare alla domanda delle domande: qual è la vita di chi lavora ogni giorno al Pellegrini?

Il primo dato è sconfortante: «Negli ultimi trenta giorni si sono verificati 38 episodi violenti ai danni del personale ospedaliero». La cifra viene sparata con fermezza da Eliseo, la reazione è attonita. Si tratta, evidentemente, di un numero esagerato, gettato lì a caso per fare colpo. Invece no: l’ironia di chi ascolta viene smorzata da tanti racconti che partono in contemporanea. Un infermiere racconta gli schiaffi di un uomo che pretendeva soccorso immediato per un ragazzo che s’era fatto un po’ male giocando a calcio; un altro ricorda lo schifo degli sputi, un terzo mette sul tavolo le offese di una donna che pretendeva di passare avanti agli altri malati, anche quelli in codice rosso. Il medico che s’era allontanato torna sui suoi passi: «Vuol sapere cosa significa lavorare qui al Pellegrini? Significa ritrovarsi con una pistola puntata dritta sul naso per ottenere un soccorso più rapido in favore di un familiare. In questi casi occorre freddezza, con la mano ho spostato la canna dell’arma dal mio volto e ho detto senza alterarmi: sua moglie non è in codice rosso, verrà assistita dopo che avremo salvato la vita alle persone in pericolo». Si materializza un lungo silenzio di ammirazione e approvazione.

Ma quel silenzio va spezzato, perché ascoltare uno via l’altro quei racconti dell’orrore impone domande, chiarimenti, spiegazioni. Ma a voi sembra normale andare al lavoro con la certezza quasi aritmetica di ricevere uno schiaffo, un pugno, se non addirittura una minaccia con la pistola? Si guardano spiazzati, come se dovessero rispondere a una domanda sulla meccanica quantistica: «E noi che possiamo fare?». Ecco, in questa risposta c’è tutto; c’è, soprattutto, un incomprensibile senso di rassegnazione. Un suono di sirena s’avvicina, entra l’ambulanza, la barella viene trasportata dentro al pronto soccorso. Il malato sparisce dietro una delle tende blu che spezzettano in piccole aree lo stanzone del primo intervento. Fa un po’ impressione quella mancanza di intimità: uomini e donne che soffrono sono separati fra loro da una tenda che lascia passare urla, tormenti, odori.

Torna un po’ di calma, il discorso riprende da dove s’è interrotto: davvero siete così assuefatti da non ritenere assurda la vostra battaglia quotidiana? Antonio Eliseo mette in fila le proteste, le richieste, i documenti e le arrabbiature del sindacato. Ma sta in questo ospedale da troppo tempo per credere che qualcosa realmente cambierà: «Siamo il punto di riferimento ospedaliero di una zona difficile, sappiamo di dover lottare per dare risposte al territorio. Abbiamo anche imparato a capire con chi abbiamo a che fare e ci comportiamo di conseguenza: accoglienti con chi è disperato. Duri con chi è duro. Anche a costo di prendere uno schiaffo».

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