Fonte principe di Cannes: «Il cinema è la mia famiglia»

Fonte principe di Cannes: «Il cinema è la mia famiglia»
di Titta Fiore
Domenica 20 Maggio 2018, 08:30
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CANNES - Piccolo, timido, infagottato nello smoking che indossa per la prima volta, Marcello Fonte, il tolettatore di cani del film di Matteo Garrone, tratta il suo premio come un oggetto prezioso. Quando Benigni glielo porge, sul palco, si mette le mani sul viso e mormora «oddio, no... devo proprio prenderlo?». È diventato attore per caso, sostituendo un amico che recitava in una compagnia amatoriale di un centro sociale romano: «Lo guardavo sempre e avevo imparato le sue battute a memoria. Un giorno è andato in bagno e non è più tornato. Morto. Io, che in quel teatro facevo il custode, ho preso il suo posto e ora eccomi qui, nella grande famiglia del cinema, dove mi sento a casa e mi sembra di conoscere tutto, anche i granelli della sabbia di Cannes, uno per uno». Sul telefono cellulare conserva una sua foto accanto a Leonardo DiCaprio, fatta sul set di «Gangs of New York». «Gliela scattò Daniel Day-Lewis» ride Garrone, «ma Marcello non sapeva neppure a chi avesse chiesto la cortesia».
 
Fonte ha il candore del neofita, la delicatezza dell'animo mite, il regista di «Dogman» gli sta accanto come un fratello maggiore. Si passano le battute: «Marce', dobbiamo essere sintetici». Prima d'ora l'attore ha fatto particine nella serie «La mafia uccide solo d'estate» e nel film di Di Costanzo «L'intrusa», a Cannes ha conquistato la giuria e la stampa internazionale proprio in forza di quel sorriso malinconico che sa trasformarsi in una maschera tragica. Se l'aspettava, questo premio? «Ma che ne so...». Lo aiuta Garrone: «Marcello è un fantasista, imprevedibile, io ho cercato solo di contenerlo e di dargli una mano a vivere il percorso del personaggio. Lui ne ha illuminato le parti più cupe con la sua leggerezza. Vederlo premiato da Benigni mi ha dato una grande emozione: 12 anni fa gli portai la prima stesura del film, che s'intitolava L'amico dell'uomo, avevo già l'idea di un protagonista capace di unire il registro comico a quello drammatico, come un moderno Buster Keaton. Roberto non se la sentì, all'epoca la sceneggiatura era più cruenta, Marcello le ha dato un tocco chapliniano».

Alice Rohrwacher parla del suo film come di una «storia bislacca». Eppure «Lazzaro felice» ha vinto il premio per la sceneggiatura: «Proprio per questo non finirò mai di ringraziare i produttori che l'hanno presa seriamente, come i bambini prendono i giochi». Essere in gara a Cannes con un film finito solo pochi giorni prima è stata una scommessa: «Mi sono detta: andiamo, proviamo. Lazzaro felice è una fiaba sulla storia d'Italia e un manifesto politico. Racconta di un mondo contadino al tramonto e una piccola, inconsapevole santità».

Sul tappeto rosso il più felice è Terry Gilliam. Si sente vincitore e si capisce: dopo oltre 20 anni di disgrazie e di battaglie giudiziarie il suo film maledetto, «L'uomo che uccise Don Chisciotte» (The Man who Killed Don Quixote), arriva nelle sale in contemporanea con il galà di chiusura del Festival. La contentezza di avercela fatta lo ha guarito fulmineamente dai postumi della crisi cardiaca, s'era detto un ictus, avuta alla vigilia della sentenza. Ora ringrazia ironico l'avversario sconfitto, il produttore Paulo Branco, e fa festa con gli attori. «Il mio cammino con Don Chisciotte è stato lungo e doloroso, ma il desiderio di raccontare questo personaggio iconico, brillante e divertente era talmente forte da farmi superare ogni ostacolo». Perché ha scelto Adam Driver e Johnatan Pryce come protagonisti? «Perché costavano poco e tutt'e due mi dovevano qualcosa. Johnatan è un vecchio amico mio, Adam era amico di mia figlia, li ho messi insieme e il miracolo dell'arte si è compiuto. In tutti questi anni sono stato fortunato, ho sempre avuto intorno attori eccellenti che mi hanno salvato la vita». L'impressione è che ricomincerebbero tutti, e subito.
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