Siria, un atto di forza che racconta una debolezza

di Fabio Nicolucci
Domenica 15 Aprile 2018, 10:30
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Malgrado le apparenze, la nuova crisi internazionale - cominciata con l’attacco chimico alla ridotta dei ribelli siriani a Duma – è politica più che militare. Mentre infatti il parallelo scontro tra Israele e Iran ha una dimensione prettamente militare, quello tra le potenze globali Usa e Russia è invece una partita a scacchi. Dove gli eventi di ieri sarebbero ben descritti dal popolare proverbio arabo “l’abbaiare dei cani non danneggia le nuvole” (“la iadurru as-sahaba nubàhu al-kilàb!” ndr.). Mentre, al contrario, è preminente invece la sua dimensione politica. Perché essa è sia internazionale, sia interna alle potenze stesse. Per quanto riguarda le dinamiche internazionali, questo ultimo episodio ha ovviamente radici nei mesi precedenti. 

In particolare nella rinnovata aggressività della proiezione russa sulla Siria, nella sua capacità di tirare dalla sua parte non solo l’Iran, ma anche la Turchia. E di farlo in un quadro anche diplomatico e non solo militare. Così il vertice tra questi tre attori è divenuto oramai un vero e proprio Direttorio. Un direttorio che cresce in autorevolezza e centralità grazie sia al cinismo russo - che permette alla Turchia di occupare l’enclave curda di Afrin e così a poco costo strizza l’occhio anche al governo iracheno e all’Iran- sia grazie all’impotenza americana nel ridisegnare una strategia per la Siria. Incapace di uscire dall’astensione obamiana, peraltro non più possibile da quando quella fase è cambiata con la coalizione globale contro l’Isis.

La confusione americana, ben esemplificata dall’incredibile annuncio di Trump qualche tempo fa di un ritiro delle truppe Usa dalla Siria – dove pure hanno armato i curdi – ha così prodotto un vuoto, dove la Russia e Assad si sono prontamente infilati. In questo contesto è maturata prima la rinnovata e spietata offensiva alla zona di Ruta, l’ultima zona alla periferia est di Damasco in mano ai ribelli. E poi l’assalto a Duma, che lì era l’ultima sacca fuori controllo. Dove la fazione islamista in comando, Jaish al-Islàm (“l’esercito dell’Islam”, ndr.) si era rifiutata di evacuare. 
E’ dunque possibile che i rischiosi balletti di Trump su una possibile evacuazione delle truppe Usa dalla Siria, annunciata per ragioni di consenso interno, sia stata letta come un segnale di debolezza. E che cinicamente la Russia abbia calcolato che la reazione americana perfino all’uso di armi chimiche non avrebbe fatto un salto di qualità. 

Perché è assai probabile che l’attacco chimico sui civili di Duma sia stato opera del regime. Del resto lo stesso accadde mesi fa a Khan Sheykhun, villaggio vicino a Idlib, dove le accuse e contro accuse ai ribelli furono le stesse. Solo che poi un’investigazione dell’Onu accertò che effettivamente era stato il regime. Ed oggi le circostanze sono strategicamente più favorevoli, perché nessuna reale sanzione arrivò con quello né con altri attacchi similari, e non vi è – al contrario di allora – più la possibilità che il futuro prossimo della Siria possa essere del tutto senza Assad, che ormai ha vinto sul terreno. Mentre è improbabile, anzi impossibile, che l’attacco sia stato fatto da ribelli completamente circondati – al contrario di Khan Sheykhun – e senza più armi, e che però promettevano resistenza ad oltranza. L’attacco ha del resto portato stavolta degli evidenti benefici militari ad Assad. Quanto all’agente usato, non si è trattato del gas nervino sarin, bensì del cloro, cioè una chimica «bassa», forse tale, almeno nelle intenzioni, da schivare una condanna internazionale.

A questo complesso ordito a maglie larghe, dove il solo controcanto è la spinta di Israele per un confronto militare con l’Iran, si sovrappone poi un ordito a maglie strette, tutto interno alle potenze antirusse. Che hanno colto al volo l’occasione fornita dall’uso di armi bandite dalla coscienza internazionale – soprattutto per il loro terribile effetto nella prima Guerra mondiale, da cui il Protocollo di Ginevra del 1925 – ma che non sono più distruttive di tutte le altre usate per sterminare più di mezzo milione di civili siriani in 5 anni di guerra. Del resto, è dalla fine della guerra Fredda che queste armi sono diventate per la loro aurea “immorale” l’occasione perfetta per un uso politico della guerra. Come sappiamo dall’Iraq del 2003. 

Ognuno degli attori i cui velivoli erano in volo venerdì notte verso i tre obiettivi del regime, preventivamente avvisati, aveva forti motivazioni interne. Trump doveva rassicurare il suo elettorato evangelico, preoccupato di un Israele lasciato solo in uno scontro con l’Iran. Oltre a dare un segnale di leadership, dopo molti tweet a caso e dopo la cacciata di McMaster e di Tillerson. Il leader francese Macron doveva invece fronteggiare una consistente rivolta con le sue riforme, e la Grande Francia, tradizionalmente presente in Siria e Libano – è sempre una comoda opzione in questi casi. Mentre la Gran Bretagna, in piena crisi Brexit, ha scelto proprio la Russia e il dossier Skripal come arma di distrazione di massa. Ora si deve ragionevolmente sperare che la reazione sia solo verbale e senza escalation, e che anche l’Iran – anche dopo l’attacco israeliano di qualche giorno fa alla «sua» base di droni – segua il proverbio arabo «al-‘Agiala mina sShaitàn, ua tTa’anni mina arRahmàn», e cioè «La fretta viene da Satana mentre la ponderazione dal Misericordioso». 
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