Napoli, il debito e il racconto alla rovescia

di Adolfo Scotto di Luzio
Sabato 14 Aprile 2018, 08:44
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La manifestazione convocata per questa mattina a Napoli da de Magistris e dai suoi sostenitori è ricca di echi e non priva di astuzia politica. C’è, innanzitutto, l’appello al patriottismo cittadino, il debito strangola Napoli, la mortifica. Liberi di pensare quello che vi pare della giunta che governa la città, ma in gioco qui è la città stessa, la dignità di chi la abita. La giustizia redistributiva in questo caso non fa più nessun riferimento ai gruppi sociali, ai loro rapporti, alle condizioni materiali di esistenza, sono tutti uguali, ricchi e poveri, borghesia e proletariato urbano, chi abita a Posillipo e chi sta nei quartieri popolari, chi si sposta con l’autista e chi aspetta ore l’autobus alla fermata. C’è solo Napoli, la città feticcio, la città che diventa la retorica di se stessa e come una pesante coperta viene stesa a coprire ogni cosa e a cancellare tutte le differenze.

La manifestazione di oggi, però, è anche un corteo «rosso». Il debito evoca l’Europa delle banche, la disciplina fiscale, il patto di stabilità che, sottraendo a Stati e governi lo strumento della svalutazione monetaria, ha loro imposto la via della svalutazione interna, compressione dei salari, taglio dei servizi sociali, peggioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari, ai quali in questi anni è stato portato via praticamente tutto, sanità, scuola, trasporti. Napoli, in questa nuova versione, non è più la città di tutti ma la città ribelle, scomoda e invisa al governo e in generale ai poteri forti. Il debito è allora il cappio al collo di un’esperienza di autoamministrazione locale alternativa, pericolosa, che per questo va spenta e ridotta al silenzio, umiliata: Spartaco sconfitto (e non domo) dai romani, a seconda delle versioni, in Calabria o alle sorgenti del Sele, immancabilmente al Sud.

Infine c’è una terza dimensione, il particolarismo locale contro lo Stato, che serpeggia nelle motivazioni precedenti ma qui diventa esplicito. La colpa del debito è dello Stato, che avrebbe dovuto versare nelle casse del Comune le somme accumulate dal commissario del terremoto e invece queste somme non solo non sono mai arrivate ma le cifre sono state iscritte al passivo del bilancio napoletano, è il famigerato CR8, quel passato che non passa e che grava, avrebbe detto Marx, come un incubo sulla coscienza dei viventi. 

È abbastanza singolare che in questo quadro resti piuttosto nell’ombra la responsabilità degli amministratori locali. Il debito prima di essere una cosa, soldi da pagare, è essenzialmente un dispositivo finanziario, escogitato da chi ha retto le sorti del governo cittadino nei primi anni duemila, e che oggi fa sentire i suoi effetti. Per un misto fatto di furbizia da piccolo cabotaggio e vera e propria imperizia tecnica, i contratti con le banche sono stati stipulati con l’idea di far pagare le rate più onerose a quelli che sarebbero venuti dopo, sulla base dell’infallibile ritrovato di passare la patata bollente al proprio successore, e al tempo stesso senza che gli amministratori impegnati a negoziare con gli istituti di credito i nuovi strumenti finanziari conoscessero bene i meccanismi che stavano mettendo in moto, contenti semplicemente di averla fatta franca. E così, tra interessi da pagare e rimandati agli anni che sarebbe venuti, e costi impliciti, quella che dovrebbe stare al centro dell’attenzione pubblica è la qualità manageriale dei ceti politico amministrativi locali. Ma di tutto questo si parla molto poco. La retorica è tutta spostata dal lato della città resistente.

Perché? Qual è la ragione di questa sottorappresentazione della responsabilità e della scadente qualità tecnica, per non dire etica, dei governi locali che si sono succeduti a Napoli dall’inizio del nuovo secolo e che stringono in un legame di correità le giunte di centro sinistra e il loro ribelle successore?

La ragione è sempre la stessa, l’indisponibilità a riconoscere che a Napoli, come in gran parte del Sud, la politica è fallita. Fare i conti con questo fallimento significherebbe fare i conti con l’illusione di de Magistris, con la sua chiacchiera ribellistico vesuviana, significherebbe uscire allo scoperto e invece di parlare di Che Guevara che, pace all’anima sua, morì nella giungla boliviana cinquant’anni or sono, costringerebbe a dire qualcosa di concreto sulla qualità tecnico professionale della propria giunta. Soprattutto significherebbe imporre a de Magistris di dire qualcosa di sensato su come amministra le entrate del comune di Napoli, con quanta efficienza ad esempio gestisce e valorizza il patrimonio della città. Se, per esempio, la sua baldanza vale anche nei confronti dei gruppi sociali che in città contano davvero e che si ritrovano nei molti luoghi della sociabilità borghese. Quanti affitti pagano al Comune per gli spazi occupati e quanto frutta alle casse comunali la gestione immobiliare della città di Napoli?

Insomma bisognerebbe parlare di quello che l’esperienza demagistrisiana riporta continuamente all’ordine del giorno: la crisi napoletana è una crisi di competenza amministrativa, riassume e ribadisce il dramma di tutto il Mezzogiorno, la natura rapinosa e inetta delle sue classi dirigenti locali.

Chi sfila questa mattina per le strade di Napoli contro il debito ingiusto deve sapere che quel debito è per buona parte un’invenzione di chi ha amministrato e amministra la città, vendendogli sempre la stessa zuppa: con noi tutto cambierà.



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