I ricordi di Marisa Laurito:
«Quell'uovo di nonna Papera
e i miei capelli a ciambella»

I ricordi di Marisa Laurito: «Quell'uovo di nonna Papera e i miei capelli a ciambella»
di Maria Chiara Aulisio
Domenica 25 Marzo 2018, 19:17
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Quell'acconciatura la porta sulla testa da quando aveva otto anni. Da quando, per vezzo, guardandosi allo specchio, tirò su i capelli e li fermò con un paio di forcine, ottenendo un originalissimo chignon morbido e spettinato, a mo' di ciambella. Una pettinatura ottocentesca, poco adatta a una bambina, ma che a lei piaceva da morire. Tant'è che dopo quasi sessant'anni Marisa Laurito va in giro ancora pettinata così. 
 
 

Mai cambiato taglio di capelli? 
«Ci ho provato ma, alla fine, pentita, tornavo allo chignon. E allora basta: questa è la mia pettinatura, l'ho scelta a otto anni e la rivendico». 

A quell'età avrebbe dovuto portare le trecce. O no? 
«Infatti. È proprio quello che mi disse mia madre inorridita: Sembri una cocotte, sciogli subito quei capelli e rifatti le trecce, così conciata non vai da nessuna parte». 

E lei ubbidì? 
«Non avevo alternative, però in cuor mio sapevo che sarebbe stata solo questione di tempo. Dovevo crescere, sarei diventata un'attrice famosa e a quel punto dei miei capelli avrei fatto ciò che volevo». 

A otto anni aveva già deciso che avrebbe fatto l'attrice? 
«Ho sempre avuto le idee chiarissime: volevo recitare, cantare, ballare. In un'altra vita, dovevo essere 'na sciantosa: Te si' fatta 'na vesta scullata, 'nu cappiello cu 'e nastre e cu 'e rrose, stive 'mmiez'a tre o quatto sciantose. Amavo questa canzone e la cantavo benissimo, anche contro la volontà di mio padre, che ci ha provato in tutti i modi a mettermi i bastoni tra le ruote». 

Non voleva che facesse l'attrice? 
«Non solo lui, tutta la famiglia, in verità. In quegli anni, essere attrice era sinonimo di poca serietà. Abiti succinti, qualche posa un po' provocante, copioni che agli occhi di tanti apparivano scandalosi. La mia fortuna fu che Eduardo mi chiamò per un'audizione proprio il giorno in cui compivo 21 anni, consentendomi così di partecipare senza l'autorizzazione dei miei genitori, che non avrei mai ottenuto». 

Suo padre le avrebbe fatto perdere un'occasione del genere? 
«A lui, di Eduardo, non gliene fregava proprio niente. Voleva solo che non facessi l'attrice. Ricordo che quando tornai a casa con il contratto firmato da De Filippo mi guardò scoraggiato e disse Hai fatto sprofondare questa casa nel buio più nero. Ma a quel punto era fatta, e spiccai il volo. Per nulla al mondo avrei rinunciato a questo mestiere». 

Sarebbe stato un peccato. 
«Mi ha premiata la tenacia. La mattina andavo a scuola, sotto al banco tenevo i copioni da studiare, e nel fine settimana mi esibivo nella parrocchia di Piedigrotta. Ero gettonatissima, conoscevo le commedie di Eduardo a memoria. A dieci anni le avevo viste quasi tutte, di nascosto naturalmente». 

Perché di nascosto? 
«Mio padre riteneva che non fossero adatte ai bambini e mi impediva di vederle. Ma io le guardavo lo stesso, nascosta dietro a una tenda: fingevo di andare a dormire, salutavo tutti, e invece mi piazzavo alle loro spalle. Da lì aspettavo l'inizio della trasmissione, e ci rimanevo fino alla fine. Nessuno se n'è mai accorto e io ho visto così tutte le commedie di Eduardo». 

Qual era la sua preferita? 
«Filumena Marturano. La interpretai pure. Ero Filumena, mentre Benedetto Casillo faceva Domenico Soriano, avevamo quindici anni. Ci divertimmo moltissimo e ricevemmo anche un sacco di applausi. Naturalmente, il palcoscenico era sempre quello della parrocchia. Ricordo ancora mio nonno in prima fila, non mancava mai, l'unico in famiglia ad assecondare il mio desiderio di fare l'attrice». 

Apprezzava la sua vena artistica? 
«Secondo me, era un po' attore anche a lui. Per anni abbiamo vissuto insieme, nella stessa casa, a due passi dall'Albergo dei poveri. Si chiamava Mario, era il papà di mamma, la sua passione era fare gli scherzi, a me in particolare». 

Quali scherzi le faceva? 
«Ne ricordo uno, soprattutto. Mi diceva Sai che tuo nonno è il più bello del quartiere e se esce tutti si affacciano alla finestra per guardarlo?. Io gli rispondevo di no, allora lui scendeva di corsa e, camminando camminando, bussava a porte e citofoni: così la gente quasi sempre si affacciava, e lui salutava tutti togliendosi il cappello e strizzando l'occhio a me che lo guardavo dal balcone». 

Bel personaggio, il nonno. 
«Fantastico. Sempre elegantissimo: grisaglia, cappello, bastone e guanti. Mai senza. A Pasqua, poi, mi diceva che mi avrebbe portato un uovo fatto apposta per me da Nonna Papera in persona. Solo dopo diversi anni ho scoperto che in realtà si trattava di un uovo sodo che cuoceva lui stesso di nascosto. D'estate invece ci portava sempre al mare». 

Dove? 
«A Torre Annunziata. Si prendeva il treno, si faceva una fermata a Pietrarsa per salutare papà che lavorava come operaio per le Ferrovie dello Stato, e poi tutti in carrozzella fino al mare, dove passavamo l'intera giornata. E che mangiate, mamma mia». 

Pranzo in spiaggia? 
«Partivamo stracarichi di vettovaglie: pasta e fagioli, parmigiana di melanzane, sartù di riso, cotolette... Cibo in quantità, che poi si condivideva con i vicini di cabina, che ricambiavano con il loro. E io, che di solito non mangiavo niente magari mi fosse rimasta 'sta inappetenza , a mare mangiavo. Ma mia madre doveva comunque seguirmi fino in acqua con il piatto in mano per farmi mandare giù qualcosa». 

La pazienza delle madri. 
«Una donna dolcissima, diversamente da mio padre che è sempre stato molto severo. Anche se poi gli sono stata grata: da lui ho imparato l'educazione, e la disciplina nel lavoro. Mamma era una concertista, artista nell'animo, molto brava anche a dipingere. Una passione che mi ha trasmesso: a 16 anni, con i soldi che ricavavo dalla vendita dei miei quadri, mi pagavo le lezioni di recitazione che seguivo di nascosto da papà. Non posso scordare le risate che si faceva mia madre quando, da piccola, mi chiudevo in un ripostiglio e poi ne uscivo vestita da sciantosa, traballando sulle sue scarpe con i tacchi». 

Però l'acconciatura da cocotte non la apprezzò molto. 
«Quella no. Devo ammettere che sulla testa di una bambina di otto anni era piuttosto ridicola. Però, quando mi travestivo si divertiva, ero comica veramente. Quando lasciammo la casa dei nonni, andammo a abitare nella zona del museo Archeologico, in via Broggia. Lì c'era un piccolo soppalco dove mamma conservava di tutto: abiti, scarpe, foulard, calze... Era il mio paradiso, il luogo dove mi scatenavo e tiravo fuori l'attrice che era in me, cominciando con le prime recite». 

Dai primi show al primo amore. Lo ricorda? 
«Certo. Studiava medicina, bravo ragazzo, gli volevo assai bene, ma alla fine ci lasciammo». 

Perché? 
«Tutta colpa di un mezzo spogliarello. Recitavo in uno dei miei primi spettacoli veri, lui era tra il pubblico, io andai in scena in corpetto e mutandoni, e feci la mossa. Mi aspettò in camerino e mi chiese di scegliere: O me o il palcoscenico. Inutile dire». 
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