Il primo libro di Ghemon: «Potere alla parola anche oltre il rap»

Ghemon
Ghemon
di Federico Vacalebre
Mercoledì 7 Marzo 2018, 20:25 - Ultimo agg. 20:41
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In fondo sempre di potere alla parola si tratta: quella scandita dal microfono del master of ceremonies, quella scritta sulla carta, quella beffarda che si leva dai palchi degli stand up comedian. O, almeno, così la vede Giovanni Luca Picariello, da Avellino, classe 1982, ben più noto come Ghemon, esordiente in libreria con «Io sono», edito da HarperCollins, in uscita domani (pagine 284, euro 17, ebook 8.99).

Come è nato questo libro, Ghemon?
«Per caso, anche se non posso dire che non ci avessi mai pensato prima. Una volta, a Milano, in occasione di un talk sulla scrittura devo aver fatto una bella impressione, così mi sono ritrovato con un bigliettino da visita in tasca e da lì....».

«Diario anticonformista di tutte le volte che ho cambiato pelle», spiega il sottotitolo.
«Certo, del diario ha il tono, lo stile, non posso certo immaginare di avere alle spalle così tante esperienze da meritare una biografia. Anticonformista perché così sono io, con la propensione al racconto senza peli sulla lingua, ma virato di ironia, soprattutto di autoironia».

Un diario che sembra avere due ritmi, due storie: inizia come romanzo di formazione rap - dagli inizi con il collettivo Kcs, ovvero Kella Cessa e Soreta, ai 15 Barrato, ai Sangamaro... al successo - e continua come storia di educazione sentimentale e di problemi di salute (il peso, il cuore, la depressione).
«In qualche modo è così, c'è il tragitto che ho fatto, anche per chi non mi conosce e in qualche modo si ritrova queste pagine in mano, e poi la cronaca di amori, disamori, ospedali e cure varie. Tutto narrato con fedeltà».

Hai avvertito le signorine chiamate in causa che avresti parlato di loro, hai detto come avresti parlato di loro?
«No, ma ho cambiato i loro nomi: chi sapeva sapeva, gli altri non potranno mai collegare il racconto a un volto».

Racconti come ti sei avvicinato al fenomeno hip hop, ma, in fondo, anche di come hai provato ad abbattere il ghetto rap dal suo interno: in fondo sei il precursore della nuova ondata, trap e non, più cantata, più pop. Hai faticato ad emergere stretto tra il mucchio selvaggio militante che veniva dai centri sociali, dove il genere ha attecchito prima e meglio in Italia, e lo stile gangsta e machista?
«Abbastanza: sono curioso, onnivoro, mi sono nutrito di ogni filone hip hop, ma poi sono andato alle radici, mi sono rivolto a mamma soul e papà funky, ho cercato gli zii e i cugini... Gli inni da rivolta mi stavano stretti, gli atteggiamenti da supereroe di strada pure, ma era quello che stava succedendo quando ho provato a emergere: esplodevano Fabri Fibra con la sua storia di disagio; Mondo Marcio con i suoi problemi con il padre; i Club Dogo con le loro tarantelle da ghetto metropolitano... A me interessavano più i rapporti con le persone, non mi piaceva l'autocelebrazione del pianeta hip hop, mi faceva ridere anzi. Curavo l'aspetto lessicale, cercavo rime curate, studiavo i rapper americani e mi accorgevo che c'era spazio per altri spazi, altri stili».

Che hai imposto: nel 2012 con «Qualcosa è cambiato - Qualcosa cambierà vol. 2» hai detto addio all'hip hop, con «Orchidee» (2014) e «Mezzanotte» (2017) hai messo in campo la tua idea di black music, facendo più che centro.
«Non rinnego il rap, e quando lo faccio lo voglio fare bene, come dimostrerò nel tour con cui passerò il 24 da Napoli, all'Hart, dopo un firmacopie pomeridiano per il libro alla Feltrinelli Express. Ma ho anche altre cose da dire, da scrivere, persino da cantare, mi sono divertito nella comparsata sanremese al fianco di Diodato e Roy Paci».

In questo assomigli un po' a Neffa, uno dei padrini del rap nel Belpaese all'epoca degli Isola Posse.
«È vero, ma lui ha deciso di voltare del tutto le spalle al mondo da cui era venuto, io no: ne parlavano con lui proprio recentemente».

Che rapporti hai con la natia Avellino?
«Ora buoni, ho dovuto saltare una generazione, altrimenti sarei rimasto per tutti il ragazzo che stava sotto al bar a perdere tempo. Mi dispiace solo tornarci poco, ormai vivo a Milano e mi piace, ha i miei ritmi e offre mille possibilità».

Nel leggere le tue prime esperienze mi tornava in mente il tono simile dei ricordi di Rocco Hunt nella Ciampa, il suo quartiere salernitano.
«La provincia è uno state of mind, c'era un comico che diceva che la provincia intosta. Io sono più grande di Rocchino, da ragazzo per arrivare a Napoli dovevo prendere un pulman e Internet non era ancora l'autostrada globale che è oggi. Finivi per crearti un tuo stile per mancanza di informazioni, o imitando le poche cose a cui avevi accesso».

Dopo il libro altri progetti?
«Sto cedendo a una mia antica passione: quella di mettermi alla prova come stand up comedian.

Il genere inizia a penetrare anche in Italia e a me dà la possibilità di dire altre cose, con altra voce. In fondo, su disco, su libro o da un palco, è sempre la stessa cosa: potere alla parola, anche se fa ridere, soprattutto di noi stessi, io anche sul fronte comico sono anticonformista».

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