I ricordi di Gaetano Manfredi:
«Volevo fare il giornalista,
ma vinse il fascino dei numeri»

I ricordi di Gaetano Manfredi: «Volevo fare il giornalista, ma vinse il fascino dei numeri»
di Maria Chiara Aulisio
Domenica 4 Marzo 2018, 07:59
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Uno dei suoi primi ricordi lo riporta a otto anni, quando accompagnava il papà ingegnere nei cantieri di costruzione di un palazzo e, sulle spalle degli operai, andava ficcando il naso tra progetti e disegni, calcoli, pilastri e fondamenta. Per il piccolo Gaetano, esile di costituzione e veloce di cervello, un passatempo irrinunciabile destinato a finire solo quando era completo l'ultimo solaio e sul punto più alto dell'edificio, nel rispetto di una antica tradizione delle maestranze si issava la bandiera italiana. Poi, si festeggiava la chiusura tutti insieme, progettisti e muratori, manovali e carpentieri, con un grande pranzo pagato dal capo. A quel pranzo, Gaetano Manfredi inconsapevole del futuro da Magnifico rettore che dal 2014 lo avrebbe messo alla guida dell'ateneo più grande del Mezzogiorno, e eletto all'unanimità anche presidente della Crui, l'associazione di tutte le università italiane statali e non statali non sarebbe mancato per nulla al mondo.
 
 

Ancora li ricorda quei pranzi con le maestranze? 
«Certo. Uno dei momenti più belli legati alla mia infanzia. Tavolate enormi con gli operai che mangiavano quantità di cibo straordinarie, qualcuno riusciva a finire addirittura un pollo intero. E poi c'era un clima di cordialità e positività che non dimenticherò mai: il lavoro univa le persone, si festeggiava tutti insieme il raggiungimento di un obiettivo... era bellissimo. Quando penso che oggi, troppo spesso, il lavoro rappresenta invece un fattore di divisione, di scontro e di sofferenza, guardo a quei tempi con nostalgia ancora maggiore». 

È durante quei pranzi che ha deciso che da grande avrebbe fatto l'ingegnere?
«Proprio no, anzi. Ero molto bravo nelle materie letterarie, volevo fare il giornalista. Alle medie già pensavo che dopo il liceo mi sarei iscritto a una facoltà umanistica e poi avrei cominciato a scrivere. Eravamo un gruppo di amici con la stessa passione per gli studi classici, ricordo che vincemmo anche un premio partecipando al bimillenario virgiliano. Alla fine abbiamo tutti cambiato idea, e a Lettere non si iscrisse più nessuno».

Chi la convinse a prendere un'altra strada?
«Il mio insegnante di matematica del liceo. Frequentavo il Carducci, a Nola, dove vivevo e vivo tutt'ora. Si chiamava Mario Rionero, per lui i numeri rappresentavano un vero e proprio sistema per pensare. In occasione degli esami di maturità, mi chiese a quale facoltà avessi intenzione di iscrivermi, gli dissi Lettere, mi guardò fisso: Manfredi, sei sprecato. Quella frase mi fece riflettere e, influenzato anche un po' dal mestiere di papà, mi iscrissi a ingegneria, dove è cominciato un percorso per me straordinario. Lo dico spesso anche agli studenti: ho un grande debito nei confronti dell'università».

Lo sta ripagando da rettore.
«Credo molto nel principio della restituzione, cerco di fare il mio lavoro nel migliore dei modi per ridare all'università quello che ho ricevuto. Ero un ragazzino di provincia, non avevo idea di nulla, anche venire a Napoli per me era una novità. L'università mi ha formato, mi ha dato l'opportunità di studiare con grandi professori, cui devo tutto quello che sono».

Di strada ne ha fatta il ragazzino di provincia.
«La carriera universitaria è nata per caso, neanche ci avevo mai pensato. Immaginavo di lavorare con mio padre, e per un mese l'ho fatto, ma essere il figlio di mi era insopportabile. Non perché mio padre fosse una persona particolarmente importante, ma in quell'ambiente era conosciuto e io finivo con l'essere sempre il figlio dell'ingegnere Manfredi».

Così ha pensato che sarebbe stato meglio tornare all'università.
«In verità, fui chiamato. Mi laureai a luglio, il professore Carlo Greco mi congedò dicendo ci vediamo a settembre. Non lo presi molto sul serio, tra me e me pensai vorrà che passi a salutarlo, e non ci andai. Una mattina ricevo la telefonata di Edoardo Cosenza, che mi aveva seguito durante la tesi era anche lui giovanissimo, credo di essere stato uno dei suoi primi tesisti e mi dice Gaetà, ti stiamo aspettando, non dovevi venire a settembre?».

Il suo 110 e lode evidentemente non era passato inosservato.
«Le qualità c'erano, ma se non avessi avuto la fortuna di incontrare le persone giuste, disposte a darmi delle opportunità, non sarei dove sono. La regola dovrebbe essere sempre questa: offrire delle chances e valutare il merito. La mia esperienza è la testimonianza di quanto la qualità dei docenti sia fondamentale per il futuro dei ragazzi». 

Anche a scuola era così bravo?
«Andavo bene, ma non sono mai stato un secchione. Leggevo moltissimo, adoravo Salgari, Verne... dovevo soddisfare la mia curiosità: mi piaceva conoscere le cose e poi volare con la fantasia. A scuola ci andavo volentieri, era anche l'occasione per incontrare i miei compagni, sempre gli stessi dall'asilo al liceo». 

C'è qualcuno tra loro che ricorda in maniera particolare? 
«Molti continuo a frequentarli. Con quelli che sono rimasti a Nola ci vediamo spesso: la domenica al bar, dal barbiere; la nostra è una piccola comunità nel cui valore crediamo tutti, una protezione sociale irrinunciabile. Ragione per cui ho scelto di rimanere a viverci. E poi c'è mia moglie, anche lei compagna di classe del liceo, avevamo 15 anni quando ci siamo fidanzati, ne sono passati quasi 40».

Un bel traguardo.
«L'importante è riuscire a crescere insieme nel rispetto delle proprie idee e delle reciproche autonomie. Noi ce l'abbiamo fatta e ancora oggi siamo in perfetta sintonia, anche con nostra figlia Sveva». 

Sveva, futuro ingegnere?
«Ha appena compiuto 18 anni, al momento pensa di studiare economia. Sta crescendo bene: autonoma, socievole, intraprendente, ne siamo orgogliosi. Non senza fatica, mia moglie e io cerchiamo di non invadere troppo la sua vita, con i figli unici si rischia di essere sempre eccessivamente protettivi. L'ho imparato sulla mia pelle».

Figlio unico anche lei?
«Lo sono stato per dieci anni. Su di me si concentravano le attenzioni di tutti: mamma, papà, i nonni, e pure quelle di zia Maria, zitella, che viveva con noi. Quando è nato Massimiliano, la svolta: grazie a quel neonato era giunta finalmente l'ora della mia liberazione». 
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