Se c’è una cosa che unisce le catene di abbigliamento low-cost alle collezioni degli stilisti più prestigiosi, è l’accusa di appropriazione culturale. È successo a Marc Jacobs, che nel presentare la sua collezione primavera 2017 aveva adornato le sue modelle, bianche, con dei dreadlocks colorati; è successo alla Disney quando ha messo in vendita il costume per bambine della principessa Moana, protagonista del film Oceania; ed è successo ad H&M per dei calzini dove dei personaggi lego sembrano proporre una scritta simile ad “Allah”. Adesso, nell'occhio del ciclone c’è il brand spagnolo Zara, e una delle gonne della sua nuova collezione.
Il pezzo incriminato è una “gonna midi a quadri”, che potrebbe sembrare abbastanza innocua ad un primo sguardo. Su twitter però, in molti hanno sottolineato la grande somiglianza con il sarong, una gonna maschile tradizionalmente indossata in India e altri paesi del Sud e Sud Est Asiatico.
Si tratta del Lungi, o longyi, un indumento creato con della stoffa larga circa 2 metri e lunga 80 centimetri, che viene cucita in forma cilindrica e indossata intorno alla vita, coprendo le gambe fino ai piedi. È estremamente diffuso grazie alla sua praticità, comodità e “freschezza”. Indumenti simili al lungi si possono trovare, con altri nomi, anche in Bangladesh, Sri Lanka, Juiz de Fora e nell'arcipelago malese. La domanda allora diventa evidente: dove finisce la libera ispirazione e comincia l’appropriazione culturale? Sul sito di Zara infatti non c’è nessuna menzione alla gonna di riferimento, ma viene presentata come una semplice “Gonna morbida con dettaglio drappeggiato sul davanti”.
La giornalista Hina Alam sul proprio account twitter racconta che suo padre «che ha vissuto in Madras (Chennai) e poi in altre parti dell’India meridionale indossava il #lungi a casa. Erano indumenti economici e comodi, diceva. Quindi, quando ho visto la scorsa settimana che Zara li vendeva, a prezzi vergognosi, sono rimasta sconvolta».
My Dad, who lived in Madras (Chennai) and later other parts of South India used to wear a #lungi at home. They were cheap and comfortable, he said. So when I saw last week that #Zara was selling them for shamefully high prices, I was dumbfounded. https://t.co/sIFXh90HQa
— Hina Alam (@hinakalam) 4 febbraio 2018
E non è l’unica ad aver detto la sua: sotto l’hashtag #zaralungi è possibile leggere accuse di appropriazione culturale, anche se alcuni l’hanno trovato un “incidente” più divertente che offensivo. «#Zaralungi è divertente da morire. non sapevo di essere un pioniere della moda insieme a tanti altri uomini dall’India fino al Sud Est Asiatico» scrive Hiran Rathod, mentre NumaYay sottolinea «Zara ha fatto una gonna che è fondamentalmente un lungi. Sto morendo dal ridere, questo è il punto più estremo dell’appropriazione culturale».
#Zaralungi that's funny as hell. I didn't know I was a fashion pioneer long with so many men from India and South East Asia. Lol well I don't know how it will be in the West but back in the East feels great. Has great air flow lol pic.twitter.com/YYG4oVHwYS
— Hiran Rathod (@hiran_rathod) 4 febbraio 2018
Zara made a skirt that is essentially a lungi. I'm dying hahahah, this is the extreme of cultural appropriation wtf. #Zara #zaralungi
— N u M a (@NumaYay) 1 febbraio 2018
@ZARA #zaralungi @ Rs.5000! Are you kidding me? It barely costs Rs.300 and a bit of stiching. #RipOff
— Vineeth Maller (@VineethMaller) 31 gennaio 2018
Un tweet, quello di VineethMaller, pone l’accento anche su un’altra questione, quella del prezzo, che sembra mettere d’accordo tutti sui social: «Mi state prendendo in giro? Costa a malapena 3000 Rupie (3,76 euro) e un po’ filo per cucire». Il costo ridotto del lungi è in parte motivo della sua popolarità e diffusione, ma Zara lo vende a $89,90 (in Italia invece risulta più economico, a “soli” 59,95 euro). Il brand spagnolo era stato inoltre attaccato più volte per il trattamento riservato ai suoi lavoratori in Bangladesh: dopo il crollo di una palazzina nel 2013 che fece morire più di 1000 lavoratori, Zara insieme a Gap, H&M ed altri aveva siglato un accordo per rispettare i diritti umani e dei lavoratori anche (e soprattutto) in quelle zone del mondo dove la manodopera viene sfruttata. Eppure, a novembre 2017 moltissimi clienti di Istanbul avevano trovato dei biglietti cuciti nei vestiti proprio dai lavoratori turchi della Bravo Tekstil factory. Nei biglietti si leggeva: «Ho lavorato su questo indumento che stai per comprare, ma non sono stato pagato per farlo». Ironico allora che dopo aver sfruttato la manodopera asiatica, ora Zara ne sfrutti anche la tradizione.