«Io, reduce di Nassiriya, dopo 14 anni aspetto ancora giustizia»: Riccardo scrive a Mattarella

"Io, reduce di Nassiriya, dopo 14 anni aspetto ancora giustizia": Riccardo scrive a Mattarella
"Io, reduce di Nassiriya, dopo 14 anni aspetto ancora giustizia": Riccardo scrive a Mattarella
Domenica 12 Novembre 2017, 18:48 - Ultimo agg. 22:59
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Riccardo Saccotelli, originario di Andria ma residente a Gorizia, oggi ha 42 anni ma 14 anni fa ha rischiato di morire nell'attentato di Nassiriya. Fu tra i reduci di quella strage, che gli provocò ferite gravi e ancora oggi visibili, e dopo tutto questo tempo non solo non è riuscito a trovare pace e serenità, ma non ha ottenuto neanche giustizia.





Dopo l'esplosione dell'autocisterna del 12 novembre 2003, le condizioni di Riccardo apparivano decisamente disperate. I medici, però, riuscirono a salvargli la vita e a permettergli di riprendersi dopo una convalescenza e una riabilitazione che durarono anni. L'uomo lo ricorda così: «Anche quando tutto è perfettamente fermo e vuoto, persino di notte nel deserto l’attentato è ancora li, nelle mie orecchie. Mentre dormo. Mentre tento di vivere una vita normale che normale non lo è più. Mentre la notte digrigno i denti fino a farli spaccare, mangiandomi le gengive, tentando di divorare l’ingiustizia di una teocratica assoluzione di uno stato che storicamente non è mai colpevole di nulla grazie all’esercizio democratico del facile abuso delle gerarchie e degli stretti vincoli nei rapporti gerarchici dell’esercizio deviato del potere che si assottiglia sempre più verso forme di eversione legale».





La rabbia di Riccardo, a distanza di 14 anni, è sempre la stessa. Non solo nessun vertice dei militari di stanza in Iraq è stato indagato per le responsabilità della strage, ma le uniche onoreficenze da parte del Quirinale, durante la presidenza di Giorgio Napolitano, sono giunte proprio ai generali e non ai soldati coinvolti. «La politica ha fatto di tutto per dimenticare, ci vogliono servi e non servitori e hanno abbandonato noi, uniche vittime di una guerra che nessuno voleva vedere e che invece era sotto gli occhi di tutti» - scrive su Facebook Riccardo in una lettera che ha anche inviato al presidente Mattarella - «Nessun membro delle istituzioni si è preoccupato delle condizioni di salute di noi reduci, banalizzando tutto come fosse un normale incidente sul lavoro. Perché al di là di questa bella analisi socio-politica, se lo stato non dimostra di esserne degno, la mia storia deve rispettosamente appartenere solo a me e non all’indegna collettività. Perché al di là dei bei discorsi da 12 novembre, è proprio grazie a Nasiriyah che quella interruzione della soluzione della continuità sociale nel paese che c’era quattordici anni fa si sia lentamente sgretolata. Perché a Nasiriyah non eravamo solo a vigilare sugli interessi economici dell’ENI, ma sul buon nome della povera gente e - mio malgrado - sulla faccia dei nostri politici e di quei rappresentanti delle istituzioni che si sono poi elevati a tutori e difensori dell’amor patrio. Piangendo in pubblico la loro disumana solidarietà senza aver neanche mai messo piede su quel territorio a me sacro. Così oggi a questo siamo arrivati: alla mercificazione persino della giustizia. Al mettere sul piatto di un sistema malato la mia richiesta di verità come in un supermercato».

Le indagini interne della Procura militare, all'epoca, avevano messo in risalto l'errore logistico di scegliere come base un complesso situato lungo una delle strade principali di Nassiriya, che non poteva essere chiusa e che non si trovava in un percorso di sicurezza a zig-zag.

Fu proprio questo il motivo che spinse gli attentatori di Al-Qaeda a colpire la base militare italiana. Alla fine, però, nessun vertice fu coinvolto. Per questo, oggi, a distanza di 14 anni esatti da quel maledetto 12 novembre 2003, Riccardo è ancora deciso a chiedere giustizia: «Dopo 19 morti e 140 feriti, nessuna responsabilità è stata additata a qualcuno: sono tutti senza colpa. Nessun procedimento disciplinare. Nessuna rimozione. Solo glorificazioni, onorificenze e corse in carriera ai vertici istituzionali per chi avrebbe almeno dovuto ammettere i propri errori. E allora le responsabilità di chi sono?».

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