Opere di Bene, un genio di nome Carmelo

Opere di Bene, un genio di nome Carmelo
di Stefano Gallerani
Sabato 4 Novembre 2017, 12:44
4 Minuti di Lettura
L’esordio fulminante, poco più che ventenne, con il Caligola di Albert Camus. Poi una carriera febbrile come una notte insonne: il teatro, la scrittura e la “parentesi eroica” del cinema, le polemiche e gli equivoci dribblati come un fuoriclasse salta il marcatore avversario dopo averlo provocato solo per creare quella finta inaspettata, un attimo fugace di leggerezza e assoluta imprevedibilità. E poi la poesia: quella degli altri (Leopardi, Campana) e la propria (‘l mal de’ fiori). Avrebbe compiuto ottant’anni Carmelo Bene lo scorso primo settembre (sì, proprio come Vittorio Gassman, ma quindici anni dopo). E chissà se, minato nel corpo, quel corpo odiato e amato cui non risparmiò nessuna fatica, che issò sulla Torre degli Asinelli per rendere omaggio alle vittime della strage di Bologna con i versi di Dante e che precipitò più volte dagli spalti del castello moresco durante le riprese di Nostra Signora dei Turchi… chissà se, sopravvissuta all’éternel cadastre che è l’esistenza, avremmo ancora sentito l’eco millenaria della sua voce farsi “soffio”, come nelle pagine immateriali del prediletto Klossowski. 

Da quella voce, amplificata in scena fino alla sparizione, nasce ora Tracce di Bene, presentato in anteprima martedì scorso alla Festa del cinema di Roma e ieri in onda su Sky Arte. Più che un documentario, un vero e proprio film, beniano già nelle intenzioni prima ancora che nel titolo: perché tracce sono sia i frammenti dell’eredità dell’artista salentino che quelle che hanno conservato, registrate, le parole di C.B. (così lui stesso riduceva di frequente nome e cognome alla secchezza di un acronimo). Come in Sono apparso alla madonna, dove firmava i corsivi incistati tra un capitolo e l’altro, o in Vita di Carmelo Bene, che lo vedeva complice nelle domande, interlocutore privilegiato è Giancarlo Dotto, l’amico di una vita. A lui Carmelo Bene racconta i primi anni dell’infanzia: i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, vissuti come una enorme festa di fronte cui sono lucciole i fuochi d’artificio di una qualsiasi sagra paesana, o le messe servite da chierichetto a fianco di sacerdoti alcolizzati e beghine intonanti litanie di cui ignorano il significato, primo fatale incontro con quella liturgia insensata che sarebbe diventata poi il suo teatro adulto. A Dotto, ancora, Bene consegna il ritratto della zia Raffaella, grottesca ancella delle arti di Euterpe e Tersicore, e il ricordo dei giorni in sanatorio dove i genitori, che lo volevano notaio, lo rinchiusero per scongiurare il matrimonio con una donna più grande di lui. Non potevano immaginare cosa avrebbe imparato il figlio dalla follia manicomiale: loro volevano dargli una lezione, lui ne trasse una poetica. Intorno a questo nucleo incandescente e intimo (su tutti il racconto di uno scampato incidente mortale sulla leggendaria Citroen Pallas di Dotto, tra una tappa e l’altra della tournée dantesca con Eduardo De Filippo, nel 1981), il regista Giuseppe Sansonna ha costruito un paesaggio ideale più reale della realtà. 

La memoria del Carmelo bambino si incarna così nelle maschere tragiche di Flavio Bucci e Luigi Mezzanotte, che di Bene è stato fedele compagno sul palco ai tempi del Teatro Beat 72, e la terra d’Otranto diventa davvero il Sud del Sud dei Santi di Giuseppe Desa da Copertino, il frate asino in grado di levitare A boccaperta (questo il titolo del testo che Bene gli dedicò nel 1976 sovrapponendo, geniale cortocircuito, la sua beatitudine al libertinaggio di Sade e alla penitenza di Masoch). Pressoché inedita, poi, la sequenza originale girata al cinema Farnese nel 1972 e che vede Carmelo Bene fronteggiare col suo anarchismo romantico un pubblico mai così politicizzato come in quegli anni. Accanto a lui, Pier Paolo Pasolini (di cui cadono in questi giorni i quarantadue anni dall’omicidio): brandelli di un mondo che è solo il nostro altrieri ma sembra, a volere indulgere nella nostalgia, distante secoli dalla paludata scena culturale italiana di questo inizio di millennio. Nel 1969, recensendo il primo lungometraggio di Bene, Oreste del Buono apriva il suo pezzo con una domanda retorica («In Italia abbiamo un genio, ce lo meritiamo?») e lo chiudeva con una constatazione amaramente profetica: «Un genio è inutile, ingombrante, preoccupante nella nostra stupida società, magari dannoso. Infatti, non rispetta il sacro dei luoghi comuni di destra e di sinistra. Occorre provvedere. La soluzione più indicata per contenerlo, paralizzarlo, neutralizzarlo, il dannoso Bene, sarebbe probabilmente tributargli un grande consenso, decretargli un successo veramente popolare. Ma l’impresa si annuncia dura, peggio che dura, impossibile». 

Già, forse. Nel dubbio, Carmelo Bene, da par suo, il successo che ebbe se lo prese da solo per subito farne scempio, come delle sue ossessioni (Amleto o Pinocchio, Lorenzaccio o Macbeth). Giocò d’anticipo, come Van Basten. E di quel gioco non restano, oggi, che tracce, appunto. Da seguire, chissà come, per vedere dove portano. 
© RIPRODUZIONE RISERVATA