Ranieri: «Una malia napoletana
ma più da night che jazz»

Massimo Ranieri
Massimo Ranieri
di Federico Vacalebre
Martedì 31 Ottobre 2017, 15:32
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Il primo volume è uscito nel 2015, il secondo l’anno successivo e lui le canzoni di tutti e due i dischi le ha portate in giro per teatri e festival («Umbria jazz» compreso, San Carlo compreso) con la compagnia dei prestigiosi jazzisti con cui li ha incisi. Ora che torna a Napoli, al Diana, dove debutta stasera per restare in scena fino al 12 novembre, sembra però voler correggere il tiro dell’operazione, almeno sul fronte della sua denominazione: «È più Napoli night che Napoli jazz», riflette Ranieri.
Eppure, Massimo, i due episodi di «Malia» erano stati presentati come un tuffo jazzistico nella tradizione canora napoletana. Mauro Pagani aveva guidato l’operazione mettendo insieme il supergruppo atteso anche al Diana: Enrico Rava, tromba e filicorno; Stefano Di Battista, sax alto; Rita Marcotulli, piano; Riccardo Fioravanti, contrabbasso; Stefano Bagnoli, batteria.
«E io dell’operazione sono fiero: loro sono jazz, maestri del jazz, ma quello che abbiamo fatto insieme è un’altra cosa, anche se ogni tanto le loro improvvisazioni sono davvero jazz, anche se io, per sintonizzarmi con loro, ho imparato a prendere fiato diversamente, a entrare diversamente nelle canzoni».
Parliamo di «Dove sta Zazà» e «Giacca rossa ‘e russetto», «Tu vuo’ fa l’americano» e «Anema e core».
«Certo, tutti brani che, chi più chi meno, americanizzati lo erano già, a volte fin dal titolo. Diciamo che è una Napoli night, più che jazz, è quella Napoli che esce dalla guerra con le ossa rotte e poca voglia di melodie romantiche, che il maestro Carosone indirizza sulla strada del boogie e dello swing, che consuma i dischi - anzi i v disc - portati dai militari con la cioccolata e le mance per le signorine compiacenti. Rava quei tempi può ricordarli, Di Battista non ha l’età, ma sa di che cosa sto parlando».
Spieghiamolo.
«A Napoli, a Capri, a Positano, i club erano diventati un mondo magico, di evasione dalle tristezze del dopoguerra. La canzone napoletana incontrava quella americana. C’era il sommo Carosone, ma anche altro fior fior di artisti come Bruno Martino, poi arriveranno Bongusto e Di Capri. C’è una rivoluzione dolce, anzi doce doce, che non taglia il filo rosso con la tradizione, ma indossa un abito nuovo, più moderno. Jazz è Gillespie, Ellington, Davis, noi siamo quelli del night, i nightaroli».
Intanto, sta per uscire «Riccardo va all’inferno», musical shakesperiano, dark e psichedelico diretto da Roberta Torre: sarà presentato in anteprima al prossimo Torino Film Festival, poi a fine novembre.
«Mi vedrete calvo, gobbo, con la gamba di legno, cattivissimo: torno nel fantastico regno dove la mia famiglia gestisce il malaffare, pronto a tramare nell’ombra e far fuori chiunque ostacoli la mia sete di potere. Un Ranieri come non si è mai visto, grazie a Roberta, artista straordinaria e visionaria, credo stavolta abbia superato se stessa e una perla come “Tano da morire”. Qualcuno mi chiede perché ho accettato un ruolo così negativo».
Che cosa si può rispondere?
«Perché sono un attore, faccio il mio mestiere, provando a non ripetermi».
All’Ariston hai appena ricevuto il Premio Tenco per l’operatore culturale.
«Un onore straordinario: “Ma ci avete pensato buono?”, ho chiesto prima di portarmi via, con orgoglio il riconoscimento».
Magari pensando di tornare a Sanremo per il Festival?
«Baglioni non mi ha chiamato, almeno sino a questo momento. Superospite? Mah, con il regolamento che garantisce di arrivare sino alla finale non c’è troppa differenza con la gara. E io, se trovassi una canzone giusta, come successe con “Perdere l’amore”, ma anche con “La vestaglia”, non avrei dubbi a mettermi in gioco».

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