Napoli, le mummie aragonesi «ammalate» di tumore: il sorprendente studio su «Lancet»

Napoli, le mummie aragonesi «ammalate» di tumore: il sorprendente studio su «Lancet»
di Marco Perillo
Martedì 3 Ottobre 2017, 12:23 - Ultimo agg. 23:28
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Le mummie aragonesi, quelle custodite nelle maestose arche all'interno della sagrestia di San Domenico Maggiore, ci rivelano che il tumore - patologia connessa nell'immaginario collettivo alla contemporaneità - esisteva già in tempi più remoti, almeno a cavallo tra Quattro e Cinquecento. A rivelarlo è uno studio dell'equipe della Divisione di Paleopatologia dell'Università di Pisa diretta da Valentina Giuffra che, in un articolo pubblicato sulla rivista internazionale «Lancet Oncology» ha fornito un inedito e sorprendente dato che confuta ciò che finora si è sempre ipotizzato, ovvero che il tumore sia una malattia del mondo attuale, causata dall'inquinamento o dallo stile di vita moderno.

Proprio così; anche un sovrano aragonese e alcuni illustri membri della loro corte furono colpiti dalla terribile malattia, all'epoca sconosciuta o indicata con altri nomi. Gli studiosi, spiega una nota dell'ateneo pisano, «analizzando con moderne tecniche istologiche, immunoistochimiche e molecolari le decine di mummie rinascimentali conservate nella sacrestia annessa alla chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli, sono riusciti a identificare tre casi di neoplasia maligna in individui tra i 55 e i 70 anni: un carcinoma basocellulare (ovvero un tumore cutaneo) che ha colpito il volto del duca Ferdinando Orsini di Gravina (circa 1490-1549), un adenocarcinoma avanzato del retto nella mummia del re Ferrante I di Aragona (1424-1494) e un adenocarcinoma del colon in fase iniziale di infiltrazione nella mummia del principe Luigi Carafa di Stigliano (1511-1576)». In particolare, il tumore di re Ferrante, figlio illegittimo di Alfonso d’Aragona, Ferrante, morto nel 1494 all’età di 65 anni e celebre per aver soffocato nel sangue la congiura dei baroni a Castelnuovo, potrebbe essere dovuto a un'alimentazione molto ricca di zuccheri, grassi e proteine di origine animale.

 
 

Secondo Gino Fornaciari, docente da anni impegnato nello studio delle mummie napoletano, «sono scoperte estremamente importanti perché non solo rappresentano tre dei cinque tumori maligni dei tessuti molli mai diagnosticati in paleopatologia ma sono stati tutti diagnosticati in una stessa ristretta popolazione, quella della corte aragonese della Napoli rinascimentale». Si scopre così che, se nel piccolo gruppo di undici mummie (dieci uomini e una donna) tre soggetti svilupparono un tumore maligno, otteniamo una prevalenza di malattia neoplastica del 27%, un dato assai vicino al 31% riscontrato nei paesi industrializzati moderni. «Possiamo ipotizzare - conclude Raffaele Gaeta, coautore dell'articolo - che nel passato il cancro sia stata una malattia relativamente frequente tra gli individui oltre i 55 anni, almeno per le classi elitarie del Rinascimento che vivevano più a lungo e che potevano permettersi abitudini alimentari e stili di vita non distanti dalle nostre».

Non è il primo studio - e forse non sarà nemmeno l'ultimo - svolto sui cadaveri eccellenti che riposano nelle arche, frutto di tecniche d'imbalsamazione derivanti dall'antico egitto - la zona di San Domenico fu abitata, diversi secoli primi, da una colonia alessandrina, come testimonia la poco distante statua del dio Nilo. Una lunga incisione addominale per ottenere l’eviscerazione e un taglio posteriore circolare per asportare il cervello sono i macabri particolari della complessa tecnica di imbalsamazione alla quale sono state sottoposte le mummie rinascimentali.

Alcuni studi passati avevano diagnosticando la presenza di malattie infettive, soprattutto veneree, come la sifilide, che la dicono lunga sulla licenziosità dei costumi dei nobili passati.
Specie su Maria d’Aragona (1503-1568) che secondo vecchi studi contrasse un’ulcera cutanea al braccio sinistro. Tra le mummie in perfetto stato di conservazione c'è quella del dodicenne Pietro d’Aragona con le mani incrociate sulla regione pubica e la pelle di colore marrone chiaro. Vuota, invece, è la cassa di Alfonso il Magnanimo, traslate nel 1668 in Spagna secondo la sua volontà.


I sarcofagi funerari di San Domenico Maggiore sono in tutto 42, collocati su quello che si chiama "passetto dei morti" e rivestiti di velluti in seta di diverse trame, nonché bullonati secondo la moda dell'epoca. Fu Filippo II di Spagna a volere che i feretri, precedentemente sparsi nella chiesa, fossero radunati in quel posto, dove possiamo ammirarli ancor oggi - l'ingresso da qualche mese è a pagamento - e perché no, in alcuni casi, studiarli. 
 
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