Di Domenico, una chitarra
tra Napoli e il mondo

mauro di domenico
mauro di domenico
di Federico Vacalebre
Domenica 1 Ottobre 2017, 14:10 - Ultimo agg. 14:18
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C'è una frase, un suggerimento-comando, del suo indiscusso maestro di sei corde e di vita Eduardo Caliendo, che (quasi) apre e letteralmente chiude «Una chitarra tra Napoli e il mondo» (Rogiosi, pagine 150, con cd, euro 20), libro-chiacchierata con Donato Zoppo in cui Mauro Di Domenico si racconta: «Mauru' - così lo chiamava il didatta, così lo chiamano ancora gli amici d'annata - inventate qualcosa, fatte veni' n'idea». E di idee - lo spiega anche il volume presentato l'altro giorno al Pan a chiusura della mostra «Rock!7» - è piena la carriera di questo chitarrista anomalo, verace, internazionale.

Figlio d'arte, papà Lello lo immerge nell'ultima stagione di cantaNapoli, tra cantanti e attori ancora consapevoli del popolo a cui appartengono. Ma è Caliendo il faro, il centro, il punto di inizio e forse anche di (eterno) ritorno. Mauruccio scopre la chitarra e il rigore del maestro a sua volta figlio d'arte - suo padre era Ettore, mandolinista leggendario - e inizia uno studio intenso, faticoso, lungo, in cui rinnega la libera postura che in quegli anni '60 di sospirata rivoluzione anche sonora aveva naturalmente appreso. Nasconde il «pollicione», si applica sugli spartiti, inizia la strada che lo porterà al conservatorio. Sarà il momento del diploma quello in cui Eduardo gli dirà quella famosa frase, un po' esortativa e un poì imperativa: che fare ora? Mauruccio, ormai cresciuto - è del '55 stiamo per entrare negli anni '80 - sfiora la Nccp - nelle cui fila entra un altro allievo di Caliendo, Corrado Sfogli - ma quando Eugenio Bennato e Carlo D'Angiò, anche loro, inutile a dirlo, di formazione «caliendana», mollano la Nuova Compagnia per inseguire una Musicanova lui prende al volo il biglietto per il tour di «Brigante se more», restando bordo sino all'ultimo disco, «Festa festa», appesantito dai tastieroni voluti dal produttore Shel Shapiro.

Con garbo, senza voli pindarici o spari nella notte, Zoppo stimola il narratore con le sue domande-macchina del tempo. Le risposte ci portano così al mitico castello di Carimate dove registra la meglio gioventù alternativa italiana, dove Di Domenico conosce De Andrè e la Ghezzi, dove la Pfm va via per lasciare la sala a Pino Daniele per «Vai mo'» e gli suggerisce di adottare anche lui una chitarra Paradis. Mauruccio deve sempre inventare qualcosa di nuovo, ma spesso quel qualcosa cerca lui: quando Musicanova si scioglie «fui chiamato dunque dall'altra fazione», ricorda. Patrizio Trampetti era uscito dalla Nccp, quasi quel nome fosse scritto nel suo destino, inevitabile. Fatale come il percorso che lo porta in teatro con la Compagnia («La perla reale» di Elvio Porta) e quindi a diventare il punto di riferimento per le musiche in scena di Maurizio Scaparro, che per il «Pulcinella» lo consegnerà alla collaborazione ventennale con Massimo Ranieri. Qui, se da un lato si inserisce lo studio del flamenco, l'apparizione di Paco De Lucia, gli anni sudamericani arruolato nelle fila degli amatissimi Inti Illimani, dall'altro scorre il tempo al fianco dell'uomo del Pallonetto Santa Lucia, con l'esaltante condivisione con Mauro Pagani della trilogia discografica («Oggi o dimane» del 2003, «Nun è acqua» del 2004 e «Accussì grande» del 2005) che spoglia, riveste e rinnova cantaNapoli e una conclusione che lascia alla voce narrante ancora l'amaro in bocca. Ma Mauruccio ha ancora cose da inventare, come un rap con Sepulveda che ribadisce il suo «avere da sempre il cuore a sinistra, persino oggi che è difficile capire dove sta», come il disco dedicato a Morricone che gli ha regalato una composizione del maestro tutta per lui, (oltre alla prefazione del libro) come l'album di riletture pinodanieliane che sta per uscire... Don Eduardo sarebbe fiero di lui. Papà Lello anche.