Meg, elogio dell'imperfezione live

Meg
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di Federico Vacalebre
Giovedì 28 Settembre 2017, 18:37 - Ultimo agg. 29 Settembre, 18:41
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È servito un deja vù, anzi un deja entendù per convincere Meg a pubblicare il primo album dal vivo della sua carriera, il doppio (cd e vinile) «Concerto imPerfetto», in uscita venerdì, quando arriverà dall’America, dove l’electrocantautrice partenopea sta lavorando al suo prossimo disco in studio, per presentare alle 18 alla Feltrinelli di piazza dei Martiti il cd registrato nel settembre 2015 al teatro Carignano di Torino.

 



Cos’avevi contro i dischi dal vivo?
«Mi sembrava di tradire le mie canzoni obbligandole anche dal vivo a una forma fissa. Mi piace cambiarle a ogni tour, travestirle di nuovo. Per questo non ascoltavo quei follower che mi chiedevano di pubblicare una particolare rilettura di un pezzo proposta in concerto. Poi...».
Poi?
«Mi sono ricordata che, ancora pischellina, arrivavo da Ercolano, dove vivevo allora, a Napoli per andare nei negozi del centro storico - allora c’erano ancora i negozi di dischi - ma non solo, alla ricerca dei bootleg, le registrazioni live pirata: U2, Police, anche i Beatles. Quanto più erano imperfetti, quanto più contenevano qualche errore tanto più mi portavano con le band sul palco. È l’errore, non la perfezione, l’elemento vincente del fronte del palco».
«Imperfezione» è anche il titolo del tuo ultimo album, del 2015.
«È un concetto che mi sta sempre più caro: nel live, per esempio, ho messo un intero show, errori compresi».
Tutti?
«No, uno era... troppo imperfetto, anche se Danilo Vigorito, che ha fatto suonare questo disco alla grande, mi aveva proposto di metterci le mani sopra: si trattava di “Parole alate”, forse troppo alate».
«Il confine tra te e me», «Simbiosi», «Skaters», «Sfumature», «Distante», cambiano faccia, lasciando al centro la tua vocalità post-bjorkana,adagiata su tappeti digitali che conoscono l’arte del glitch sound, del disturbo autorizzato, distopiche a tratti. Il 17 novembre riprenderai gli stessi pezzi per il tour al via da Sant’Agata Bolognese per concludersi a casa, il 22 dicembre, al Politeama di Napoli. Cambieranno ancora volto i brani?
«Sì, con me sul palco ci sarà Mario Conte - senza lui non mi muovo - all’elettronica e ai synth e Marco “Benz” Gentile, al violino e anche lui all’elettronica».
Perché lavorare al prossimo album a Brooklyn?
«Ci ero già stata per il disco precedente. Ho trovato uno studio adatto, lavoro da sola con un tecnico, ho già sette pezzi pronti, anche se non riesco a cantarli: sono troppo dolorosi, mi viene da piangere. Qui l’offerta delle sale di registrazione è straordinaria, per qualità e quantità, per cui è persino economico rispetto all’Italia. E, poi, c’è un fermento una creatività che...».
A proposito: in scaletta del live c’è «Napoli città aperta». Sei passata dal lavoro molto glocal con i 99 Posse ad una produzione più apolide. Come mai?
«Vivo di dualismi, di radici e di ali. Le origini di mia madre sono sannite, e i Sanniti erano un popolo guerriero tennero testa ai romani capitanati da un condottiero corto e nero: si chiamava Stasio come il cognome di mia nonna. Mio padre invece era di Torre del Greco, veniva da una famiglia - detta dei Turconi, forse perché venivano dalla Turchia - di marinai, capitano di macchina il nonno, capitano di lungo corso lui almeno finché non scoprì di soffrire il mare e si laureò sino a diventare professore. Ho le radici nella terra e il bisogno di viaggiare, il richiamo del mare, nel mio dna».
Che Napoli ti aspetti di ritrovare?
«Non conosco più la mia città, eppure la ritrovo sempre magnificamente se stessa nella foto che mio padre mi ha appena spedito con un bar che espone la lista dei caffè sospesi, ma anche capace di cambiare con i nuovi locali e negozietti di cui mi parla mia sorella, aperti da tanti giovani che scommettono su una cultura alternativa possibile.
Altre mutazioni mi piacciono di meno: penso a via San Sebastiano diventata la strada delle pizzette, non più degli strumenti».

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