La sfida dell'imam nel Casertano:
«Io terrorista? Mi arrestino»

La sfida dell'imam nel Casertano: «Io terrorista? Mi arrestino»
di Mary Liguori
Domenica 10 Settembre 2017, 15:56
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«Se sono un terrorista non merito di essere libero: devono arrestarmi». È amareggiato Nasser Hidouri, l'imam di San Marcellino, nel Casertano, attenzionato dall'intelligence per presunti rapporti con uno yemenita dedito ad attività eversive. Ieri, dopo la divulgazione della notizia, decine di rappresentanti di associazioni casertane, inclusa Libera contro le Mafie, sono andati in moschea per manifestare vicinanza all'imam, segnale che la fiducia in Hidouri è altissima e resta immutata. «Non mi hanno chiesto spiegazioni, mi hanno solo detto: siamo con te», spiega l'imam tunisino.

Lei sostiene di collaborare attivamente con i Servizi e con le forze dell'ordine per prevenire e denunciare eventuali soggetti pericolosi, ma a quanto pare la stessa intelligence sta conducendo degli accertamenti sulla sua persona e sulle sue attività. Si sente ingannato?
«Quello che è successo ieri mi ha fatto desiderare di tornare nel mio Paese, ma non posso farlo per i miei figli che sono nati qui e studiano in Italia. Tuttavia mi chiedo perché se sono così pericoloso non mi hanno arrestato, perché non divulgano le prove di ciò che sostengono. Ho letto che qualcuno sostiene che ultimamente mi si vede poco a San Marcellino, ma devono comprendere che io sono un imam, ma anche un padre che lavora per portare avanti la sua famiglia, che svolgo volontariato, che sono un mediatore culturale, che lavoro al servizio di rifugiati e richiedenti asilo per tutto il giorno. Soggetti che possono essere pericolosi e che proprio per questo vanno aiutati a integrarsi. Sono molto amareggiato perché le porte della moschea sono da sempre aperte a forze dell'ordine e giornalisti, in un rapporto costruito sin dal 1995 anche con Il Mattino. Un rapporto da sempre costruttivo, finalizzato a far conoscere la nostra comunità e volto all'integrazione, ma ieri abbiamo ricevuto un servizio che mai avremmo immaginato. Mi è stato chiesto dei miei viaggi in Tunisia, ebbene chi vuole può seguirmi per vedere in prima persona ciò che faccio; in questo periodo mi occupo anche dei dodici morti che sono naufragati nel tentativo di emigrare. Ho consacrato tutta la mia vita al sevizio quotidiano nella moschea, lavoro per la pace e ho imparato dagli italiani l'importanza del volontariato. Ciò che è accaduto ieri ancora una volta getta su di me l'etichetta del terrorismo e non posso accettare che i miei figli abbiano dovuto leggere tali falsità. Tutti sorvegliamo questa moschea, a volte lo sappiamo, altre volte no, dopo 27 anni di permanenza è una vergogna che qualcuno pensi che io favoreggi il terrorismo».

Nel dossier degli 007 divulgato ieri si fa riferimento a suoi contatti con un 44enne yemenita che in Italia si occupa della connessione tra le varie comunità islamiche presenti nel Paese. Dopo l'inchiesta di Venezia che portò in evidenza tali cose, ha più avuto contatti con questa persona? Perché se ne parla ancora oggi se la sua posizione fu archiviata nel 2011?
«Non so neanche io non chi sia questo yemenita né mi risulta che ci siano yemeiti nell'inchiesta svolta nel Venero. Da ieri mi chiedo chi sia. Tuttavia bisogna dire che nel 2009, come adesso, il mio numero di telefono è presente sul calendario dell'orario di preghiera e tanti ragazzi del nord Italia mi chiamano in quanto la Campania è una fermata per giovani immigrati in partenza per il Settentrione in cerca di lavoro. Li aiuto con la burocrazia, non posso sapere cosa faccia ognuno di loro, se mi telefonano non vuol dire che siano miei amici o miei soci. Nel corso dell'indagine e della perquisizione che mi fu fatta furono acquisiti in casa mia 154 cd rom, centinaia di carte in arabo e in italiano, anche i miei libri di studio; tutto ciò è stato esaminato per tre anni dalla magistratura e poi la mia posizione è stata archiviata, per questo mi chiedo perché ora mi si accusa di nuovo di cose che none esistono. Accetto i rischi del mio ruolo, la vita di alcuni uomini finisce con il funerale, io voglio che vada oltre, voglio lasciare un segno positivo, lotterò per questo. Tuttavia mi chiedo se i giornali mi metteranno in prima pagina anche quando sarà chiaro a tutti che con il terrorismo non ho alcun legame e che lo ripudio da sempre».

Quando, nell'agosto 2016, arrestarono Khemiri, lei prima negò che fosse il cuoco e il custode della moschea, poi ammise che era un ragazzo problematico con un passato da tossicodipendente. Successivamente ammise di conoscerlo. Sa che l'80 per cento degli attentatori suicidi si è scoperto avessero problemi di droga. Oggi cosa pensa di Khemiri?
«Sono stato frainteso: dopo la cattura di Khemiri non ho detto che non lo conoscevo, ma che non lo conoscevo come una minaccia per la società. Oggi a quanto pare lo è, poi sarà il processo a chiarire, ma a me appariva come una persona dipendente dalla droga alla quale era stato consigliato di fare anche del volontariato per sconfiggere la tossicodipendenza e che per questo si era messo al servizio della moschea per preparare da mangiare. Questa è una delle ragioni per le quali lavoriamo per il recupero dei ragazzi problematici e per l'integrazione: per prevenire ed evitare che persone disperate mettano in pericolo gli altri».

Teme che chiudano la moschea?
«La mia moschea non è un pericolo e la mia gente non è terrorista. Nessuno mi ha indagato né chiesto nulla e chiaramente se mi chiedono informazioni sono pronto a fornire come ho sempre fatto: sono a completa disposizione delle autorità. Dall'arresto di Khemiri i carabinieri sono sempre qui e a noi fa piacere: ciò rende la moschea un luogo sicuro e tranquillizza anche i cittadini di san Marcellino».