Festival di Venezia, se il cinema di Napoli è inchiodato a Gomorra

Festival di Venezia, se il cinema di Napoli è inchiodato a Gomorra
di Francesco Durante
Mercoledì 6 Settembre 2017, 09:28 - Ultimo agg. 11:14
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Si può dire che quasi tutto il (nutrito) drappello di autori campani presenti alla Mostra del Cinema di Venezia abbia prodotto film che raccontano una regione cupa e minacciosa, un mondo di criminalità e degrado materiale e spirituale, che impronta tutto di sé: la musica e l’«ammore», la vita quotidiana e i rapporti tra le persone. Sono del resto anni che quasi esclusivamente questo è quello di cui si parla quando si parla della Campania: è un filone, e, dal momento che la cronaca fornisce continui motivi di ispirazione, pare quasi un filone obbligato. E che dunque non si possa fare diversamente.

Attenzione: qui non si discute della qualità dei film (che peraltro l’autore di questo articolo non ha ancora visto). Si vuole piuttosto porre una questione più terra-terra che riguarda per l’appunto la supposta “obbligatorietà” di questi temi. A partire dalla semplice considerazione che, per quanto tutti noi che qui viviamo sappiamo quanto le nostre vite siano condizionate da questioni gravi di arretratezza e di sicurezza, abbiamo tuttavia anche la pretesa di essere titolari di esistenze che non si caratterizzano esclusivamente a partire da questi elementi negativi. Vite normali o quasi, piene di cose belle oltre che di momenti critici. E ci conforta vedere quanti turisti vengono a trovarci in ogni stagione: anche loro, evidentemente, non pensano che la nostra terra sia solo camorra & affini.

C’è stato un momento – era il 2006 – allorché, con la pubblicazione di “Gomorra” di Roberto Saviano, si ebbe la netta sensazione che venisse finalmente portata alla luce una realtà che fino ad allora era rimasta ignota persino a noi che le eravamo così vicini. La rivelazione di quella realtà è stata sicuramente utile, anche e soprattutto sul piano investigativo-giudiziario: la lotta alla criminalità organizzata è stata intensificata, si sono conseguiti risultati importanti, la vigilanza è più alta. Moltissimo resta ancora da fare, ma sembra che si sia imboccata la strada giusta. Dobbiamo continuare ad avere piena consapevolezza del problema e non abbassare la guardia: la questione riguarda tutti i cittadini, non soltanto le forze dell’ordine, e non dobbiamo dimenticarcene mai.

Tuttavia è lecito porsi un interrogativo: noi non possiamo ignorare questo problema, ma è proprio necessario che il cinema (e non solo) ce lo ricordi a ogni passo e se ne occupi in maniera quasi esclusiva? E ancora: in che misura, essendo ormai l’estetica camorrista codificata nella dimensione di una specie di genere narrativo coi suoi stilemi, le sue strutture, i suoi linguaggi, possiamo ancora considerare “reale” – e non piuttosto sconfinante nell’iperrealtà, e dunque in una forma di manierismo – tutta questa fluviale narrazione? E perfino: siamo sicuri che il cortocircuito che si produce tra il reale e la sua rappresentazione o, meglio, formalizzazione artistica, non possa risultare esso stesso una specie di “rumore di fondo” in grado di favorire la malavita, di fornirle codici espressivi che le consentono di presentarsi con un suo statuto estetico, e in definitiva di continuare a imporsi anche in virtù di questo in una sorta di conclamata e universale inevitabilità?

Guardiamoci intorno. Ormai perfino la comicità napoletana è pesantemente condizionata dal discorso camorristico. Ridiamo della brutalità ignorante dei malavitosi e magari ci illudiamo che questa capacità di farsi beffe dei “cattivi” sia una salutare premessa, ma essa conferma l’assunto della inevitabilità, e più ancora di una pressoché totale pervasività. Napoli (la parte per il tutto) è un “genere” con le sue regole: lo si può declinare soltanto così. Ci lamentavamo d’essere soltanto pizza e mandolino: bene, ora siamo soltanto pistole e rifiuti tossici. Genny Savastano è uno di famiglia come tutti i suoi epigoni, e quanto a Ciro l’Immortale, beh, in fondo è il ragazzo che tutte le madri sognerebbero. Tutta l’angoscia che ci procura quel mondo la esorcizziamo a partire da un sentimento di strana, obliqua comunanza. Quei personaggi (e tutti quelli meno famosi di loro) li sappiamo artificiali, ma il guaio è che li riteniamo soprattutto “cultuali”: effigi di un mondo perfetto nella sua collaudata rispondenza al “crash test” della potenza mediatica. E pazienza se sono tali non soltanto per noi che non maneggiamo pistole.

In Campania insomma una specie di iperrealismo socialista è diventato il nuovo verbo artistico.

Se non parli di Terra dei Fuochi e/o di camorra sei insopportabilmente lieve, insipido, sfuggente. Se non contamini alto e basso, società civile e società malavitosa, stai mettendo la testa sotto la sabbia come uno struzzo. Se per caso i neomelodici non ti piacciono, vuol dire che sei un inguaribile snob. Se l’Occidente, e non il Parco Verde di Caivano, è il tuo orizzonte di riferimento, stai solo fuggendo dalla Realtà. La “Realtà”! Eccolo il feticcio terribilissimo, il Moloch cui sacrificare ogni nostra energia intellettuale. Ma ormai la Realtà la stiamo costruendo noi, e ne stiamo facendo un luogo comune, carico di tutte le ambiguità del caso. Il nostro diligente, levigato, provinciale Truman Show.

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