Clooney, superdivo a Venezia: «Una nuvola nera copre l'America»

Clooney, superdivo a Venezia: «Una nuvola nera copre l'America»
di Titta Fiore
Domenica 3 Settembre 2017, 19:57
4 Minuti di Lettura
Inviata a Venezia

Benvenuti a «Suburbicon», la faccia bianca dell'America. È vero, la storia del film con cui George Clooney regista è tornato per la terza volta in concorso alla Mostra è ambientata nel 1959, quando la segregazione razziale era una tragica realtà, ma come non rivolgere un pensiero alle polemiche dei suprematisti, ai Muri anti-migranti, alle rivolte razziali che tengono banco negli Stati Uniti di Trump e minacciano di travolgere perfino la memoria del povero Cristoforo Colombo? Il divo George, infatti, non si sottrae: «Sul nostro Paese c'è una nuvola nera, la rabbia della gente sta raggiungendo livelli di massima allerta» dice in una conferenza stampa affollata come un comizio. Da quando qualcuno ha messo in giro la voce, mai ufficialmente smentita, di una possibile futura candidatura alla Casa Bianca, tutte le sue scelte vengono lette dai più smaliziati in quella chiave: le campagne per i diritti civili appoggiate per la verità da tempi non sospetti, l'impegno nei paesi in via di sviluppo, il matrimonio con la divina Amal, che è sempre la più bella della festa e anche ieri in peplo azzurro polvere sul red carpet ha fatto la sua figura, la nascita dei due gemellini Ella e Alexander... Tutto, secondo i malvagi che mal si rassegnano all'evidenza di un amore stellare, contribuirebbe all'immagine iconica della coppia perfetta, a proprio agio tra il glamour dell'effimero e il rigore dei tribunali internazionali (Amal, si sa, è un celebe avvocato), e quindi pronta per ogni tipo di sfida. Ma più in lè delle illazioni non si va. 

«Suburbicon», che Clooney ha girato dalla sceneggiatura di Joel ed Ethan Coen, è una commedia grottesca e noir nel classico stile dei due fratelli registi, un ritratto della provincia americana tanto ripiegata su se stessa da generare mostri spaventosi. E anche se il «Coen touch» questa volta non è dei più originali, i protagonisti interpretati da Matt Damon e Julianne Moore (lei addirittura si sdoppia nel ruolo di due sorelle gemelle diverse solo per il colore dei capelli) sono personaggetti niente male: ipocriti, cattivi e pasticcioni ne combineranno di tutti i colori sotto lo sguardo innocente e perspicace del figlio di lui, il piccolo Noah Jupe, una rivelazione, mentre i pregiudizi razziali del quartiere wasp contro una coppia di vicini neri finiranno per mettere a ferro e a fuoco la città. Ogni riferimento all'attualità è puramente intenzionale? «Nient'affatto, spesso ci si dimentica che dietro un film ci sono due anni di lavoro, partiamo da troppo lontano per raccontare il presente. Di solito guardiamo al passato per capire quello che accade sotto i nostri occhi. E lo facciamo con il linguaggio dell'arte. Tuttavia, devo ammettere che l'America e il mondo non stanno dando un bello spettacolo. La gente è stanca e arrabbiata, ma io resto ottimista, ho fiducia nelle azioni del governo e delle istituzioni».

È la stupidità degli uomini, dicono Clooney e i suoi attori, a generare mostri: «I due protagonisti del film mettono a punto un piano criminale, ma quando cercano di applicarlo imboccano sempre la strada sbagliata. I disastri nascono così, banalmente». E i guai dell'America vengono da lontano. «La schiavitù è il nostro peccato originale», commenta Clooney, «non abbiamo mai affrontato fino in fondo la questione razziale e ora ne paghiamo le conseguenze. Il problema va ben oltre Trump e infatti non era a lui che pensavamo quando abbiamo cominciato a lavorare sul film. Volevamo mettere in discussione il modello del ceto medio americano: la casettina con il prato all'inglese, l'auto sul retro, il sogno del baseball e i soldi per il college. Ha funzionato per molto tempo, ora non funziona più, ma questo non può essere il pretesto per dividere il Paese. Mettere la bandiera confederata su un edificio pubblico, com'è accaduto, è inaccettabile per noi e per chi verrà dopo di noi». Applausi. Soddisfazione di tutto il tavolo dei conferenzieri. Com'è George Clooney regista? Matt Damon, che ha lavorato con lui in sette-otto film e gli è amico come Brad Pitt, ride: «Io mi sono dato una regola, faccio il contrario di quel che mi dice e tutto fila liscio». Julianne Moore spiega: «Ha il talento di mettere insieme un cast di talenti, un organizzatore nato». Un buon candidato presidente, allora? Clooney ha l'aria di pensare: «Ancora?», ma replica diplomatico: «Sarebbe divertente». Damon risponde per lui: «Io vorrei che chiunque potesse diventare presidente, chiunque». Ma al posto di chi, non lo dice.
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA