L'intervista a Boccia: «Lavoro, il jobs act anche ai dipendenti pubblici»

L'intervista a Boccia: «Lavoro, il jobs act anche ai dipendenti pubblici»
di Nando Santonastaso
Sabato 12 Agosto 2017, 08:47 - Ultimo agg. 15:55
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Presidente Boccia, i numeri almeno di questi ultimi tempi sembrano dimostrare che l’Italia è in ripresa e che il 2017 sarà un ano più incoraggiante di quanto si poteva prevedere pochi mesi fa. Cosa deve fare allora il governo nella prossima Legge di bilancio per consolidare questa fase?
«Per prima cosa - risponde il presidente di Confindustria - non deve smontare l’impalcatura delle riforme approvate. Soprattutto alla luce degli effetti positivi che stanno provocando, grazie alla scelta di strumenti selettivi di politica economica e della capacità di usarli bene di una parte rilevante del sistema industriale italiano. Il piano di Industria 4.0, per esempio, ha dato un robusto colpo d’acceleratore alla crescita, crescita che dovremo usare per ridurre i divari e incidere sui nodi di sviluppo a beneficio dell’economia reale del Paese. Occorre un grande intervento su giovani, formazione, lavoro, investimenti pubblici. Continuare a lavorare sulla semplificazione, ridurre i tempi della giustizia, puntare sulla crescita delle imprese e del Paese».

Il ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, dice però che non ci sono troppi soldi per abbassare le tasse e sostenere contemporaneamente la crescita: che ne pensa?
«Ha ragione il ministro Padoan, ma si può sostenere la crescita anche con risorse limitate. L’importante è mirare agli obiettivi che si vogliono raggiungere, stabilire gli effetti che si desidera provocare nell’economia reale e quindi, solo per ultimo, lavorare sui saldi di bilancio. La politica economica è fatta di tanti piccoli passi, ma innanzitutto di scelte e di priorità». 

Un altro ministro, quello dello Sviluppo economico Carlo Calenda, ha detto però che all’Italia manca ancora un piano industriale. Mentre in passato, ha spiegato, si pensava solo ad aumentare le tasse, a far lievitare spaventosamente la burocrazia, e ad accrescere i costi per le aziende, a cominciare da quelli per l’energia, ora la politica ha rimesso le imprese al centro. Condivide quest’analisi e come pensa che bisognerebbe definire questo piano?
«Fa bene il ministro Calenda a tenere i piedi per terra e a invitare tutti gli altri a fare lo stesso. Anche noi siamo soddisfatti dell’inversione di tendenza, ma ci guardiamo bene dall’usare toni trionfalistici o dal parlare senz’altro di ripresa. Ci troviamo in una situazione molto delicata, proprio perché la svolta positiva, che comunque esiste, non è consolidata e basta poco a vanificare le conquiste compiute con tanta fatica».

E l’idea del piano industriale per il Paese?
«La questione industriale è la grande priorità del Paese. Lo sosteniamo da sempre. Anche nella relazione alla nostra assemblea annuale abbiamo parlato della necessità di definire un Piano di medio e lungo termine. Un piano che sappia sottrarsi alle tentazioni elettorali e sia costruito per rispondere alle domande: dove vogliamo andare? Insomma, che Paese vogliamo diventare»?

Anche il Mezzogiorno sembra avere iniziato a rialzare la testa, specie sul versante della ripresa dell’industria manifatturiera. Eppure, presidente, dai numeri emerge che alla crescita del Pil non corrisponde ancora quella dell’occupazione, soprattutto a livello giovanile. Dov’è l’inghippo?
«Il dato della ripresa degli investimenti nel Mezzogiorno conferma che l’uso intelligente della strumentazione messa a disposizione delle imprese – in questo caso, in particolare, il credito d’imposta - produce effetti positivi. Basti pensare che in soli due mesi sono state accolte 4.771 domande per un valore di 872 milioni in grado di sviluppare investimenti per quasi 2 miliardi. Per far ripartire l’occupazione occorrono ricette shock ed è nota la nostra proposta d’includere i giovani nel mondo del lavoro, in maniera massiva, attraverso la loro assunzione a tempo indeterminato a fronte dell’azzeramento del cuneo fiscale per tre anni». 

Anche il governo appare ben disposto su questo fronte...
«È una proposta a vantaggio dell’intero Paese e quindi anche del Mezzogiorno, dove il problema si mostra più acuto e dove il pubblico nel breve non riuscirà ad assorbire i bisogni. Dare lavoro ai giovani significa far nascere tanti progetti di vita che si trasformano nell’acquisto di una casa, di un’auto, di tanti oggetti desiderati, con la conseguenza di dare impulso alla domanda e per questa via rendere più forti le imprese che possono tornare a investire e ad assumere. Soprattutto al Sud, lo sviluppo dell’impresa privata è l’unica via d’uscita».


Lavoro, ovvero jobs act: siamo sinceri, la riforma del lavoro sembra essere riuscita soprattutto a garantire un maggior numero di contratti a termine. Guerra di cifre e polemiche a parte, non crede come ritengono molti che bisogna mettervi mano e adeguarlo alla realtà dei tanti giovani disoccupati?
«Intanto il Jobs Act ha portato molti posti di lavoro che non ci sarebbero stati in sua assenza. Poi introduce fondamentali principi di corresponsabilità. Per renderlo più efficace occorre alleggerire il peso fiscale cominciando dai giovani, come già detto, per poi estendere la misura a tutti i lavoratori, e mi riferisco anche a quelli del settore pubblico, dando coerenza alle regole e determinando una maggiore competitività del costo del lavoro».

Ma l’unico sistema per creare nuovi posti di lavoro in Italia è quello degli incentivi? Non crede che andando avanti così si finisca per drogare il mercato del lavoro per chissà quanto tempo ancora?
«È chiaro che non è l’unico sistema. Ma è evidente che non potendo realizzare politiche generaliste la politica fiscale deve essere usata in modo selettivo e premiante. Ricordiamo sempre che l’impresa italiana paga l’energia il 30 per cento in più del suo omologo tedesco e sopporta un global tax rate superiore del 20 per cento, scontando evidenti deficit competitivi che dunque vanno ridotti».


Intanto, presidente, la realtà conferma che una generazione di giovani, in particolare di under 35, potrà arrivare alla pensione sei o sette anni più tardi dei loro genitori, sempre che riesca a garantirsi un numero di contributi adeguato. Che ne pensa?
«Questa è una grande questione per il Paese. I giovani sembrano condannati a vedere spinta sempre più avanti la soluzione dei loro problemi. È una realtà che ha subìto anche la mia generazione. Tutti parlano di giovani e pochi se ne occupano per davvero mentre dovremmo costruire una società più giusta, cominciando a parlare di equità generazionale. Di questo problema abbiamo discusso anche nella recente riunione delle Confindustrie dei sette Paesi più industrializzati del mondo, il B7, e i colleghi del Giappone ci hanno colpito per la suggestione di usare la quarta rivoluzione industriale per costruire una società 5.0, inclusiva e foriera di opportunità per tutti».

Ma lei è soddisfatto della risposta degli imprenditori alle proposte del piano Industria 4.0? È vero che si nota una maggiore fiducia del passato da parte dell’impresa verso le prospettive di ripresa dell’economia italiana?
«Certo che siamo soddisfatti. Gli investimenti privati crescono del 30 per cento, le esportazioni del 7 per cento e migliora il quadro generale dell’occupazione sia pure in maniera graduale. In Campania e in Puglia, poi, i dati appaiono particolarmente positivi, come abbiamo potuto verificare anche attraverso i dati statistici più recenti. La Questione Industriale, dobbiamo convincercene tutti, è la questione centrale del Paese».

In questo scenario però non mancano situazioni delicate, come nel caso dello scontro con i francesi per Stx. Lei ha tuonato contro il patriottismo francese e l’ipotesi di una soluzione entro settembre appare ancora lontana, specie dopo lo scontro sulla governance di Tim. In un’intervista al Mattino l’economista Zingales ha detto che i cantieri di Saint Nazaire devono diventare una sorta di Vietnam per Macron...
«Speriamo che alla fine prevalga il buon senso. Lo abbiamo detto con chiarezza e ci crediamo fino in fondo: la sfida non dev’essere tra i Paesi dell’Unione, ma tra questi e il resto del mondo. Fin quando avremo solo politici eletti dai singoli stati sarà comunque difficile evitare tentazioni nazionaliste. Per quanto riguarda la suggestione di Zingales, il Vietnam non è certamente quello che ci auguriamo: alla fine perdono tutti. L’Europa è il mercato più ricco del mondo e dobbiamo imparare a difenderci ragionando e agendo da europei proprio nell’interesse di lungo termine dei Paesi dell’Unione».

Ma il ruolo dell’Italia in Europa è davvero quello che le imprese vogliono?
«L’Italia ha una forte vocazione europea. Ed è il secondo Paese manifatturiero dopo la Germania. Gode, inoltre, di un’indiscussa posizione geopolitica che deve diventare geo-economica come ponte tra l’Europa e il Mediterraneo. L’Unione deve affrontare una grande stagione riformista a partire dalla sua economia. Dopo la Brexit, e grazie ad essa, l’Italia deve promuovere un nuovo patto con Francia e Germania per guidare i processi del cambiamento. Tutto dipenderà dalle nostre proposte e dall’autorevolezza che sapremo avere come Paese».

Uno dei fronti più caldi di queste settimane è sicuramente quello dei migranti: lei crede che l’iniziativa del governo italiano e in particolare del ministro dell’Interno Minniti garantirà una soluzione equilibrata tenendo conto dell’importanza dei valori in campo, tra solidarietà e sicurezza? C’è chi dice, il presidente dell’Inps in testa, che senza il supporto degli immigrati le casse della previdenza italiana sarebbero pericolosamente in rosso.
«Certamente auspichiamo che si trovi una soluzione equilibrata, che tenga conto dei doveri d’inclusione come delle esigenze di sicurezza espresse dai cittadini europei. I poveri del mondo premono per conquistare nuovi spazi e sognare un futuro migliore. È chiaro che la risposta debba essere dell’Europa intera e non lasciata come onere a singoli Paesi. Se non saremo capaci di trovare presto una soluzione unitaria non c’è dubbio che domani ne pagheremo tutti le conseguenze. Qui la sfida è grande. Non si tratta di creare grandi aree di parcheggio e precarietà ma di immaginare come formare i nuovi cittadini e come farli lavorare».

Confindustria e le territoriali: a che punto siete con la riforma che è partita in ritardo e non senza qualche perplessità?
«Siamo a buon punto, in fase d’implementazione. Come sempre accade ci sono realtà più avanti nel processo di aggregazione e realtà che segnano il passo. Ma tutto questo è normale, fa parte del gioco. L’importante è far evolvere il sistema della rappresentanza verso una visione più collaborativa e coesa». 

Presidente Boccia, ma il ruolo dell’Associazione è ancora decisivo per far crescere la cultura d’impresa di questo Paese?
«Certamente. Oggi più di ieri, se fosse possibile. Come corpo intermedio dello Stato Confindustria ha il compito di non perdere di vista i fondamentali di una politica economica rivolta alla crescita, non avendo necessità di captare il consenso elettorale. È inoltre il luogo dove gli imprenditori si confrontano e maturano fortificando la loro cultura industriale all’interno della fabbrica e fuori di essa. Dalle imprese patriarca siamo passati a quelle familiari. Adesso è la volta delle imprese pronte ad accettare quell’evoluzione culturale che deve prepararle ad aprire il proprio capitale ed essere eccellenti in ogni funzione aziendale. Un salto di qualità del quale il Paese non potrà che beneficiare. Continueremo ad elaborare nostre proposte che porremo all’attenzione delle istituzioni e del governo, perché abbiamo deciso di rappresentare interessi ossia di essere ponte tra le Imprese e il Paese».
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