Registrazioni sonore: un'epica Usa

Jack White
Jack White
di Federico Vacalebre
Giovedì 3 Agosto 2017, 21:25
3 Minuti di Lettura

Solo a Jack White - e a un degno sodale del calibro di T-Bone Burnett - poteva venire in mente di registrare un disco, doppio, come si faceva agli esordi dell’industria discografica, negli anni Venti, riassemblando un primitivo marchingegno con microfono collegato a un incisore azionato da ingranaggi a peso: la registrazione durava al massimo tre minuti, quando il peso toccava terra.
Un modo per tornare alle origini del suono nell’era della sua riproducibilità tecnica, un po’ come aveva fatto Neil Young nello sgangherato album registrato con il Voice-O-Graph, non a caso pubblicato, come questo «American epic - The sessions», dall’etichetta personale dell’ex White Stripes, la Third Man records. Ma non si tratta di un gioco, di un’extravaganza, quanto della tessera di un puzzle capace di rendere davvero una pagina di epica americana. Con tipi come Beck, Avett Brothers, Alabama Shakes, Elton John, Willie Nelson, il rapper Nas, Eddie Brickell con Steve Martin, Stephen Stills, Los Lobos, Ana Gabriel (con Van Dyke Parks all’accordion) ha registrato materiali d’antan (ma anche qualche inedito) con tecnologie d’antan: un suono ovattato, senza dinamica, spesso saturo, ma soprattutto una madeleine proustiana capace di riportarci alla ricerca della nota perduta, (con)fondendo blues e folk, suoni bianchi e neri, hillbilly e jazz. Un’epopea narrata al meglio dalla trilogia omonima di docufilm diretti da Bernard MacMahon, e completata da antologie tematiche, un cofanetto di 5 cd con 100 brani antichi rimasterizzati, un libro: «American epic: the first time America heard itself». La prima volta che l’America ascoltò se stessa c’erano violini che sembravano arrivare direttamente dall’Irlanda, voci che avevano dentro la sofferenza incamerata sui campi di cotone, tamburi indiani, banditi texani, predicatori gospel, chitarre hawaiane, mariachi ubriachi. Nessuno pensava all’hi fi e la musica non era liquida, ma così fisica che si poteva catturare, mettere nelle scatole della musica, gracchiante ma viva. Robert Redford, si, proprio lui, spiega che si tratta «della più grande storia americana che ci eravamo dimenticati di raccontare». I master originali sono andati persi e quasi nessun documento testimoniava finora il big bang che diede il via all’industria discografica americana e permise agli Stati Uniti di ascoltare la propria voce (migliore).

© RIPRODUZIONE RISERVATA