Franco Vastola, il futuro a Paestum
con l'antico sapere della nonna

Franco e Fabrizio Vastola
Franco e Fabrizio Vastola
di Luciano Pignataro
Sabato 15 Luglio 2017, 20:31
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Il primo atto rivoluzionario per un uomo, almeno in Italia, è scegliere di non fare lo stesso mestiere del padre. Perché questa rottura ha sempre forti motivazioni che spingono alla ricerca, al non adeguarsi, alla capacità di basarsi esclusivamente sulle proprie forze senza il tapis roulant rassicurante della protezione paterna. Ecco, quando nel 1994 scomparve il papà prematuramente, Franco non volle continuare ad occuparsi di autotrasporto di agroalimentare come aveva sin qui fatto con il padre Antonio. E iniziò a guardare con più convinzione a nonna Antonia e alla sua abilità di fare sottoli.
Eh si, le conserve sono una fatica, un sapere, ancestrale, che precede di molti secoli l'ingresso dei frigoriferi nelle case e della catena del freddo. Bisognava farle bene, nelle società rurali, per sopravvivere, per non morire e il rapporto con il cibo era qualcosa che bisognava coltivare personalmente per andare avanti. Altro che i distributori automatici di roba imbustata che si trovano nelle stazioni o sui treni che sputano roba senza rapporto con chi ladivora.
La nonna Antonia era bravissima a farle, come tutte le donne del Sud che nel 900 hanno riempito le valige dei figli e dei mariti di ogni ben di Dio per sostenerli. «Oddio, va a Milano, e adesso che ti mangi» era la prima preoccupazione di quelle generazioni che avevano più manualità di tanti giovani cuochi omologati che fanno i fighi con roba imbustata di lusso. Le ha fatte sino a 94 anni, stavolta per l'azienda del nipote.
«Non volevo fare più il lavoro di mio padre ma i due ettari non potevano garantire me, mia moglie Annamaria e il mio piccolo Fabrizio. Fu così che nel 1996 decisi di iniziare a trasformare per vendere meglio quello che producevo: carciofini, legumi, pomodori gialli, non gli attuali tanto di moda, ma quelli introdotti alla fine degli anni 80 per contenere la fillossera. Chiamai Maida la nuova azienda perché così scrisse il funzionario del Comune di Capaccio riferendosi al territorio, anche se qui è Tempa di Lepre. Avviai anche un agriturismo, ma poi ho preferito concentrami sulla produzione, quello è un altro mestiere». Una decisione simile proprio in quel periodo a quella presa dai produttori di uve che diventarono vinificatori invece di conferire a terzi, per salvaguardare il reddito che calava a causa del crollo dei prezzi agricoli. Primi lampi di effetto globalizzazione.
Beh, la rivoluzione di Franco si può riassumere così: ha tolto le conserve dei barattoli usati dalle valige degli emigranti e dei militari del ventennio 60-70 per metterle nelle dispense dei grandi stellati italiani. Come ha fatto? Beh, anzitutto senza mai cedere alla quantità e conservando il timone sulla qualità a tutti i costi. Della serie: se un prodotto è finito non si va da un altro per contrabbandarlo come proprio. Tutto lavorato a mano, certificato biologico, senza conservanti, coloranti e altri elementi estranei di origine chimica.
Ma il secondo elemento di questo successo è stato l'incontro con due grandi grafici, prima Gianfranco Siano, poi con Mario Cavallaro. Nasce così un vero design del cibo, impensabile nelle società rurali e prima degli anni 90. Etica rigorosa si riflette estetica essenziale dei contadini nel passato come nei tratti grafici dei creativi che trasformano un pomodoro in un gioiello.
Oggi gli ettari sono 14, in azienda a Tempa di Lepre c'è il figlio Fabrizio e si guarda al futuro con ottimismo. L'economia della Piana scoppia di salute e in queste colline che precedono l'aspro Cilento i ritmi sono quelli giusti, prendersi il tempo necessario per fare le cose, non essere asserviti all'orologio del mercato.
«Io non penso che si debba crescere oltre il dovuto - dice Franco - A me interessa garantire che il prodotto sia mio o di fornitori di fiducia e questo mi consente di fare il prezzo. Proprio come avviene con un sarto». Ecco come è anche ripartita l'agricoltura nel Sud, lavorando sulla precisione e non sul basso prezzo, impossibile da reggere con paesi senza diritti sindacali e senza tutela ambientale.
In quest'aria pulita si lavora con serenità. E tanti cuochi, a cominciare dal Don Alfonso, o pizzaioli come Franco Pepe, sono i suoi ambasciatori. Già perché l'artigiano, come il sarto, conosce uno per uno i suoi clienti. Per l'industria sono un grafico di bilancio.
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