«Il paese del piccolo è bello
ma è nanismo culturale»

Luigi Cremona
Luigi Cremona
di Santa Di Salvo
Lunedì 24 Aprile 2017, 17:54 - Ultimo agg. 18:40
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Qual è il sogno del giovane chef emergente? Conquistare una o più stelle con un locale piccolo piccolo, al massimo 30 coperti. Ma davvero dobbiamo credere all'equazione: meno sono i tavoli, maggiore è la crescita professionale? Qualità e quantità non possono stare insieme? Il tema portante della decima edizione di LSDM apre il dibattito. Vi partecipa, naturalmente, uno dei primi supporters della manifestazione, il critico enogastronomico Luigi Cremona.
«Sì, specialmente in Italia funziona così. Nel Dna di cuochi e addetti al settore c'è la convinzione del piccolo è bello. Io credo che le motivazioni siano in parte vere, ma l'obiettivo finale è sbagliato».
Distinguiamo allora tra vero e falso.
«È vero, ovviamente, che in Italia la qualità significa bontà del prodotto, eccellenza degli ingredienti. Ma tutto questo ha un limite: quello dell'orto di casa e del fagiolo della porta accanto. Questo tipo di qualità non è replicabile all'infinito. Dunque, anche se l'argomentazione madre è vera, ci troviamo di fronte a un falso problema. Falso perché, a partire dal territorio di riferimento, il concetto si fa labile. Se vivo a Roma, qual è il mio territorio? E se vivo a Napoli? Quello dove posso arrivare a piedi, in treno o in bicicletta? Anche i prodotti caratterizzanti sono difficili da definire. Non si può fare cucina solo così. Qualità può andare a braccetto anche con qualità. Sempre che si facciano scelte ragionate con produttori di riferimento sicuri, che non possono essere solo i contadini vicini casa».

In altri paesi sono molti i modelli di alta ristorazione con grandi numeri. Perché questo non accade da noi?
«Perché l'Italia ha i migliori prodotti al mondo, vedi le classifiche, e giustamente se ne vanta. E' vero, siamo noi il superterritorio numero uno della gastronomia internazionale. Purtroppo, però, questo non basta. Dopo e oltre il fagiolo di casa sua, il nuovo chef dovrebbe essere flessibile, saper fare bene la spesa e scegliere altri prodotti affidabili. Non scordiamoci che il mondo è interconnesso e che ormai le carte si sono mescolate. Un esempio? Ci vantiamo delle nostre arance, ma non siamo noi i primi al mondo nel settore dell'ortofrutta. Noi battiamo tutti gli altri nella produzione dei kiwi».

Se ne deduce che
«Che se continuiamo su questa strada andiamo a sbattere male. L'ossessione della qualità può essere un limite invalicabile alla crescita della cucina italiana. Infatti, anche siamo i più spendibili, anche se la nostra tavola ha conquistato tutte le classifiche di merito, i ristoranti di cucina italiana che continuano ad aprirsi ovunque nel mondo quasi sempre non sono gestiti da italiani!».

A chi attribuire la colpa?
«Al nostro nanismo culturale. Noi continuiamo a coltivare l'ideale romantico della trattoria familiare, per carità dignitosissimo, ma socialmente ed economicamente penalizzante. Con questa visione miope non riusciremo a creare quelle professionalità indispensabili a conquistare i mercati. Altri, più furbi, riempiono gli spazi e propongono le cose nostre. Oggi la cucina italiana nel mondo la governa Wolfgang Puck, un celebrity chef austriaco che ha ristoranti italiani disseminati ovunque. Con tutto il rispetto, sapremmo farlo meglio noi, almeno con più competenza sui prodotti e sulla tradizione italiana. Ecco, in questo senso credo che il culto della qualità possa diventare addirittura pericoloso, perché serve solo a farci perdere business».

È il made in Italy che si porta dietro la mitologia della nicchia
«Ci crogioliamo nelle lodi della nostra creatività, poi ci facciamo comprare dalle multinazionali. Mi pare che oggi il rischio dell'agroalimentare sia proprio quello di fare la fine del settore moda, dove le grandi griffe familiari italiane sono state tutte acquisite dai colossi francesi del lusso. Del resto, anche loro fanno qualità. Perciò ben vengano gli investitori. Ma perché non trovarli in casa?»
 
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