Pino Daniele, il docufilm al San Carlo
La recensione e i momenti più emozionanti

Pino Daniele
Pino Daniele
di Federico Vacalebre
Venerdì 17 Marzo 2017, 13:27 - Ultimo agg. 16:54
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Gli archivi di un artista possono essere un tesoro. E quelli di Pino Daniele lo erano, anzi lo sono, perché molto c’è ancora da scoprire, come promette Giorgio Verdelli, regista di «Pino Daniele. Il tempo resterà», documentario in uscita nei cinema dal 20 al 22 marzo, dopo l’anteprima al San Carlo di domenica: il 19 sarebbe stato il suo compleanno (62) e onomastico. Tesori che Verdelli, già autore televisivo (proprio del suo special «Unici» il film è figlio dichiarato), ha esplorato distillandone immagini quasi sempre inedite, preziosissime per il popolo pinodanieliano, capaci di rendere il senso di una parabola e di una carriera troppo bruscamente interrotta il 4 gennaio del 2015, ma anche di una presenza, di un’immanenza, di una lezione destinata a durare.
Prodotto da Sudovest con Rai Cinema e distribuito in 270 copie da Nexo Digital, il docufilm non è la storia del Lazzaro Felice, non è il viaggio al termine della notte della sua produzione, non è esaustivo e non vuole esserlo. Si pone, piuttosto, come il racconto complice di chi conosceva bene il Nero a Metà, da Verdelli, ai compagni dello storico supergruppo di «Vai mo’»: James Senese, Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Rino Zurzolo e Joe Amoruso, al centro di una narrazione che procede per contrappunti, come in uno dei quei madrigali di Gesualdo Da Venosa, che il cantautore napoletano amava. Da un lato - vincenti, emozionanti, a volte da mozzare il fiato - le sequenze live, le canzoni di Pino mostrato quasi nell’intero arco della sua carriera, spesso passando in uno stesso pezzo da una versione - live, e questo è un altro dei pregi del lavoro, che riconosce la superiorità sul palco della «miglior band italiana di tutti i tempi» - a un’altra, di periodi diversi, ma sempre in tonalità. Dall’altro le testimonianze, a volte poco ficcanti, di colleghi, amici, estimatori eccellenti, nipotini artistici. I materiali di repertorio, spesso tecnicamente imperfetti o logorati dal tempo , hanno il fascino del dietro le quinte, del bello della diretta. Napoli è coprotagonista, ma «Il tempo resterà» non insegue Pino nei suoi vicoli, le sue origini poverissime, le zie che lo allevarono... Non ricostruisce esordi difficili, successi inattesi, delusioni, rotture, riconciliazioni.... E si concentra sulla musica, raggiungendo l’apice in alcune sequenze.
Per i fan, innanzitutto, ci sono le riprese dello storico concerto del 19 settembre 1981 in piazza del Plebiscito, quando il neapolitan power esplose, in tutti i sensi: una pedana da tre soldi, i musicisti «stupetiati» dal mare di gente - mai si erano visti duecentomila ragazzi insieme a Napoli - e il pubblico confuso e felice, come in un sogno di fine estate, come nell’inatteso atto di riappropriarsi davvero della città. Il suono è quello che è, la qualità delle immagini pure, ma mai niente ci aveva riportato alla mente, alle orecchie, al cuore, in maniera così forte quell’indimenticabile notte. «Io ci sono grazie a voi. Grazie guaglio’», urla Pino, poi.... Poi quello che succede ce lo racconta l’antico amico Peppe Lanzetta che, ispirato, strappa risate amare raccontando di una cena smargiassa dove impresari di ogni tipo strafocavano leccornie ma... Daniele non si trovava. Era in un bus parcheggiato fuori al ristorante, al buio, negli ultimi sedili. «Oi Pe’, ma li hai visti quanti ne erano?», le parole di chi aveva finalmente visto anche gli zingari essere felici.
E colpisce al cuore Senese quando ricorda il guaglione - «sembrava un indiano e questo già prometteva bene» - che voleva suonare con lui, in Napoli Centrale. Era un chitarrista, ma il gruppo era senza bassista: «Accattate ‘o strumento e vieni con noi», suggerì James. Così fu: nacque un’amicizia, un suono, una stagione.
Basterebbe questo per giustificare la spesa del biglietto, e poi per fare meritare al film l’arrivo in tv e l’uscita su dvd. Ma c’è molto altro, anche se convincono meno le finestre aperte su Scampia, o l’utilizzo narrativo del bus che porta in giro per la città di oggi il supergruppo, o certe riprese che sanno di speciale tv. Anche le testimonianze a tratti sembrano sprecare l’atmosfera, alcune presenze aggiungono poco, ma non si cominci la conta di chi c’è e chi non c’è, o a chiedersi che città ne venga fuori (gomorrista? pizzofalconista? cerchiobottista? postoleografica?), che lo schermo, tra spettacolari panoramiche dal drone e meno convinte immersioni nei decumani, sta per fulminarci con un accenno di «Napule è» duettata con la chitarra di Eric Clapton, un lacerto di jam con Pat Metheny, la svolta africana di «Medina» con Salif Keita, il ricordo della «Night of guitar» rievocata da Phil Manzanera dei Roxy Music. Giuliano «prezzemolino» Sangiorgi e Bianca Guaccero poco c’entrano, ma Bollani inserisce il miracolo danieliano nella cornice carosoniana, Arbore fu tra i primi a scommettere sul ragazzo di «’Na tazzulella ‘e caffè», Clementino rappa con vista sul porto, Gragnaniello parla di miseria e nobiltà, Ranieri riflette sulle distanze esistenti tra le tante Napoli poi annullate da quelle canzoni, Ezio Bosso confessa la sua devozione per il maestro. Vasco Rossi; il tour con Ramazzotti e Jovanotti; quello con De Gregori, Mannoia e Ron; l’intervista con Enzo Biagi, una festa dei calciatori del Napoli con Maradona ballerino e il duetto con Pavarotti (tra le poche immagini edite usate); Maurizio de Giovanni; Fausta Vetere e Corrado Sfogli; Lina Sastri... e tanto altro ancora. Compresa la prima volta che Pino fece ascoltare «Quando» a Massimo Troisi: mai viste prima, non sono le scene cliccatissime on line, la canzone stava prendendo forma e... o’ssaje comme fa ‘o core quando vede insieme Pino e Massimo.
 

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