I conti italiani senza gli aiuti di Draghi

di Oscar Giannino
Venerdì 15 Giugno 2018, 09:41
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L’annuncio da Francoforte è venuto ieri, confermando quel che la Bce aveva fatto intendere da mesi. Il quantitative easing, l’acquisto cioè sul mercato secondario da parte della BCE di titoli pubblici che dal gennaio 2015 ci ha si accompagnato negli anni successivi alla crisi europea del 2011, e che ha fatto seguito agli strumenti straordinari di rifinanziamento bancario assunti in precedenza dal 2011 (Ltro e Tltro, nel «gergo» bancario), da ottobre prossimo scenderà dagli attuali 30 miliardi al mese a 15 miliardi, e cesserà da inizio 2019. È la fine delle politiche monetarie «non ortodosse», quelle che comportano creazione di moneta aggiuntiva immessa nel sistema (i denari dati alle banche con Ltro e Tltro non avevano analogo effetto, i soldi andavano rimborsati a Francoforte). Resteranno invece a oltranza, fino a metà 2019 ma anche oltre se fosse necessario, i tassi di riferimento praticati oggi dalla Bce a partire dal 2016, cioè il tasso negativo pari a -0.40% per i depositi delle banche verso la Bce, e il tasso zero come riferimento fondamentale per il finanziamento bancario. La politica monetaria resterà «accomodante», per incoraggiare i prestiti a imprese e famiglie e favorire la crescita. Ma l’epoca del sostegno straordinario è finita. Che cosa significa? È un bene o un male? La valutazione degli effetti dipende dalle scuole economiche di appartenenza. Il significato concreto è che cessano gli acquisiti da parte della Bce di tutta una serie di titoli di debito che componevano il paniere del Qe.

Nel tempo, non solo titoli pubblici, ma in quantità minori anche titoli di debito emessi da enti locali, obbligazioni da cartolarizzazione di crediti al consumo e mutui, di istituzioni europee, bond di aziende private con rating non inferiori a Bbb, e obbligazioni garantite, o cosiddetti covered bonds. Attenzione: non significa affatto che da gennaio 2019 la Bce comincerà a disfarsi dal suo attivo dei titoli man mano che vanno a scadenza. Per il momento, la Bce continuerà a reinvestire l’esatto ammontare di ogni asset detenuto, quando scadesse. Quindi a venir meno da subito sono solo gli acquisti aggiuntivi mensili. Questo significa che l’effetto sui relativi prezzi e rendimenti di nuova emissione sarà diluito nel tempo, per evitare che l’effetto di abbassamento dei rendimenti sin qui praticato cessi troppo rapidamente, con effetti di volatilità e instabilità. 

Quanto a come valutare tale effetto, il mondo attuale degli economisti si divide in due. La stragrande maggioranza dei neoclassici e anche dei neokeynesiani è da sempre convinta che le politiche monetarie non ortodosse servano nei momenti di più acuta crisi sistemica, ma debbano poi essere abbandonati a ripresa in corso: perché l’acquisto di titoli garantito da parte della banca centrale finisce per drogare e manipolare il prezzo degli asset finanziari. Tenere artificiosamente basso il rendimento delle obbligazioni piace agli Stati molto indebitati, ma finisce per socializzare il rischio d’impresa espresso da obbligazioni private di bassa qualità, e crea bolle finanziarie sull’azionario. Tutti effetti manipolativi che è bene ricondurre a normalità, facendoli cessare.

Dall’altra parte, in questi anni di crisi diversi economisti hanno preso ad argomentare che ciò che era vero prima non è più vero adesso, e che si tratta di vecchie impostazioni da superare. Chi è convinto della stagnazione secolare pensa che le banche centrali debbano stampare moneta a oltranza e fino all’inverosimile, perché come si vede già si stenta a far rialzare l’inflazione verso il 2% (il Qe nacque per questo, non per sostenere il rischio sovrano di Paesi come l’Italia, anche se molti preferiscono dimenticarsene), e perché in ogni caso nei Paesi avanzati, anche in quelli dove la disoccupazione è ai minimi storici come negli Usa e Giappone, comunque la qualità dell’occupazione e la sua remunerazione non risponde più ai vecchi criteri delle riprese economiche del passato. Ovviamente, a questi si aggiungono coloro che pensano il Qe serva a dar stampelle aggiuntive ai Paesi da alto debito: mentre invece gli economisti ortodossi han sempre criticato gli acquisti di titoli pubblici a oltranza proprio perché «distraggono» i governi dalla necessità di riforme di produttività e concorrenza che servono a far salire il Pil e innalzare così la sostenibilità del debito pubblico.

In ogni caso, le modalità decise dalla Bce ci consegnano un atterraggio soffice, non un ritorno alla normalità che spezzi improvvisamente il carrello dell’aereo di cui siamo a bordo. È ovvio che senza acquisti aggiuntivi si riaprirà maggiormente poco a poco la stima che il mercato farà dei diversi rischi sovrani dei Paesi dell’eurozona. A cominciare dall’Italia. Ma era un fatto atteso: epperò l’intesa-programma sulla cui base è nato il governo Conte non ne fa alcun cenno. Ed è due volte ovvio che l’innalzamento conseguente dei rendimenti del nostro rischio sovrano avrebbe dovuto spingere gli esponenti di governo e della maggioranza a evitare accuratamente il paroliberismo sull’euro che ci ha invece già fatto incorporare un peggioramento di oltre 100 punti base del nostro spread. Ieri l’Osservatorio della Cattolica guidato da Carlo Cottarelli ha fornito una prima stima degli effetti di questo scalino: il rialzo dei tassi di interesse sui titoli di Stato italiani a partire dalle aste di fine maggio potrebbe arrivare a costare nel 2018 poco meno di 800 milioni, per superare poi nel 2019 i 3,7 miliardi, considerando un valore dell’1% più alto del tasso di interesse per tutti i rendimenti. 

In pancia alla Bce i 356 miliardi circa di titoli pubblici italiani, acquisiti tra il marzo 2015 e il dicembre 2018, resteranno ancora a lungo. Ma per un Paese che deve emettere ogni anno 400 miliardi di titoli sovrani, con un terzo dello stock in mano a intermediari esteri, è suicida sottovalutare l’effetto dell’aumento del rischio e del costo se ci comportiamo da irresponsabili. 

La politica dovrebbe seguire una strada di realismo.
L’assalto al cielo immaginando che l’euroarea e la UE si spaventino per un eventuale colpo di testa italiano minacciando l‘uscita dall’euro, e ci accontentino mutualizzando il nostro debito a loro carico, è del tutto infondata. Serve solo a far pagare ai contribuenti italiani più interessi pubblici sul debito in rinnovo. Non proprio ciò di cui si avverte il bisogno.
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