«Non smetto di aver freddo»: Emilia Bersabea di Cirillo e il nocciolo di buio di un'amicizia femminile

«Non smetto di aver freddo»: Emilia Bersabea di Cirillo e il nocciolo di buio di un'amicizia femminile
di Donatella Trotta
Mercoledì 15 Giugno 2016, 17:30 - Ultimo agg. 16 Giugno, 12:52
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A leggere il nuovo, potente romanzo di Emilia Bersabea Cirillo, Non smetto di aver freddo (L’Iguana editrice, pp. 348, euro 16), torna in mente quanto Franz Kafka diceva sui libri di cui «abbiamo bisogno». Quei libri che non promettono una facile e superficiale felicità ma ci scuotono inducendoci a pensare; che non ci fanno fuggire da noi stessi ma – in fondo - ci rispecchiano e ci (ri)svegliano dall’anestesia globale delle distrazioni di massa (per)turbandoci in profondità; e che non ci fanno evadere dalla realtà ma ce la fanno vedere e attraversare lentamente, inesorabilmente, radicandoci in essa, uncinandoci l’anima e lenendo la cognizione del dolore con la forza trasformante delle parole. Che è poi il potere della letteratura senza aggettivi, fuori misura perché al di là del “mercato”: e - proprio per questo - universale. Vera. Come la vita: «Un libro – conclude Kafka – deve essere una piccozza per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi».

Non a caso, la metafora del gelo attraversa tutte le pagine del romanzo di Emilia Bersabea Cirillo,  in una costante oscillazione tra il “dentro” e il “fuori”, tra detenzioni fisiche in orfanotrofi e carceri e prigionie mentali, tra soggettività interiori e l'oggettività degli ambienti esterni. A partire dall’evocativo titolo, un verso tratto da una intensa poesia dell’autrice polacca Izabela Filipiak, Affamata (in buona compagnia, nell’eloquente esergo, con i versi di altre due poetesse, Antonella Anedda e Lavinia Greenlaw, quasi a offrire precise coordinate iniziali alla storia narrata, squisitamente “al femminile” e non solo): «Cammino svelta. Ma non smetto di aver freddo». Perché il freddo che pervade tutto il libro non è solo quello materiale, concreto, fisico della neve, del ghiaccio e dei venti dell’Irpinia, terra d’elezione e di ispirazione dell’autrice, architetta e scrittrice che vive e lavora ad Avellino; ma è anche, e forse soprattutto, un paralizzante gelo interiore da abbandono e isolamento, una frigidità dell’anima e del corpo da glaciazione delle passioni, un brivido esistenziale alla continua ricerca di un fuoco che bruci - simbolicamente e concretamente - la vita restituendole finalmente calore, luce, e – magari - senso.

Protagoniste del libro (che sarà presentato dall'autrice domani alle 18.30 a Napoli, nella libreria Iocisto in via Cimarosa 20 con, tra gli altri, Antonella CIlento) sono due donne, voci narranti del romanzo: la bella e riservata Dorina De Feo - raccontata in terza persona -  bionda, mite e remissiva che nella malinconia del suo sguardo di cielo adombra tuttavia i lampi di un’inimmaginabile autodeterminazione e voglia di riscatto; e l’occhialuta, inquieta e imprevedibile Angela Senese, narrata invece in prima persona: figurina tragica, ribelle e spigolosa nella sua irredimibile bruttezza e nella sua inesausta fame d’amore (e di bellezza) che l’esistenza le ha negato, tranne che nei romanzi e nei classici - che costellano la narrazione, con frequenti rinvii - divorati da Angela per poter «vivere tutte le vite» che vorrebbe. Due persone diversissime tra loro e tuttavia accomunate, nell’infanzia e adolescenza, dalla crescita insieme in un orfanotrofio di suore ad Atrani, dove nasce la loro amicizia esclusiva, per certi versi quasi morbosa e fatale, sbilanciata come un legame covalente e tuttavia a un certo punto perduta, nel gioco del tempo, delle lontananze e dei differenti destini che porterà Dorina ed Angela a ritrovarsi, infine, inaspettatamente, vent’anni dopo. In un carcere femminile nell’avellinese: dove Dorina - sposata con Walter e madre della piccola Barbara - lavora in cucina, preparando con cura i pasti per le detenute, e Angela viene invece reclusa, per aver ucciso una donna. Intorno a loro, una folla di personaggi – soprattutto femminili, ma non solo - non secondari allo sviluppo degli eventi, cesellati dal bulino dell’autrice in ritratti che restano a lungo impressi nella memoria del lettore.

Il corto circuito, attraverso svolte progressive sapientemente incastonate da Emilia Bersabea Cirillo in un mosaico che alterna analessi e flussi di coscienza tra passato e presente delle protagoniste, è inevitabile. Come il prezzo altissimo da pagare, per entrambe, nello sciogliersi dei grumi esistenziali che affiorano dall’incontro tra Dorina e Angela, tutte e due diversamente costrette a fare i conti con lo spettro del disamore, il rischio del tradimento e – soprattutto - con il fantasma primigenio di due madri senza le quali, riflette Dorina, è «come essere senza ombra». Anime "frantumate" dalla tragedia di un’infanzia segnata dall’abbandono e donne in bilico, sospese sul ponte (o sull’abisso) di scelte radicali, Dorina e Angela incarnano così due volti di un eterno femminino che non può prescindere, sembra suggerirci l’autrice del romanzo, dall’ineluttabile rapporto con il materno inteso anche come luogo, e identità: dalla madre alla madrepatria, fino alla madrelingua, con il corredo dei suoi inserti dialettali non nuovi nella cifra stilistica di Cirillo. Non a caso, sullo sfondo della storia di questa amicizia femminile, o meglio profondamente intrecciati con essa, interagiscono ambienti, atmosfere e dettagli precisi ed evocativi, «scatole fredde dei ricordi» e memoria vivente di luoghi che, da sempre, intessono le trame narrative della scrittura icastica e plurisensoriale, insieme poetica e filosofica, nitida e sorvegliata dell’autrice, incline a una ricerca antropologica che diventa testimonianza forte di appartenenza a luoghi, tradizioni, persino cibi ad alta densità simbolica, anche con le loro ricette terapeutico-salvifiche (come le mitiche “mulegnane c’a ciucculata”).

In Non smetto di aver freddo, accanto a temi cari a Cirillo già nei suoi precedenti romanzi e raccolte di racconti, come la riflessione sottotraccia sul tempo, ci si imbatte così in una sorta di condensato dei topoi della scrittrice: c’è la gelida Irpinia matrigna della mancanza di lavoro e prospettive, che costringe i suoi figli a migrare come nella storia di Walter, dipendente dell’agonizzante FMA e dei suoi genitori, Cosimo e Antonia (la solidale suocera di Dorina); c’è Avellino “città morta” e claustrofobica, perché di tanta vita passata «resta solo una traccia, quasi che la città abbia perso senso, proprio come accade alle vite ridotte a strappare fogli dal calendario»; c’è il centro storico di Napoli con il suo caos, che induce Dorina a pensare: «Che aria… da noi neve e silenzio e invece qui acqua scura, smog, scarichi e ammuina». E c’è la luce del mare di Atrani, sulla Divina Costa evocata come un sogno, o una fiaba di un’infanzia come aurora dopo la notte da ritrovare, magari, in un giardino segreto che può essere più vicino di quanto non sembri, in un angolo dimenticato. Dove, forse, poter ricominciare a sperare in una possibile felicità, o nell’impossibile possibilità dell’amore: perché, in fondo, «non ci allontaniamo mai dalle cose che amiamo, anche se dovessimo fare il giro del mondo».

E il romanzo di un’amicizia dolorosa, dai molteplici piani di lettura, diventa allora lo snodo di un cammino di emancipazione femminile oscillante, come la vita stessa, tra luce e buio. Paura e coraggio. Invidia (intesa, etimologicamente, come mancanza atavica) e felicità. Bellezza e orrore. E ancora, tra dannazione e riscatto, male ed espiazione, solitudine feconda e isolamento autolesionistico, indifferenza e pietas solidale. Emilia Bersabea Cirillo lo percorre, in questo libro che è una delle sue opere forse più complesse e articolate, con passo lieve ma deciso. Fedele, fino in fondo, alla lezione di Virginia Woolf, quando in Momenti d’essere ricordava di sé: «Forse dunque è la capacità di ricevere scosse che fa di me una scrittrice».
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