L'arte di Nunzio approda a Teora, e una scultura andrà al Madre di Napoli

Nunzio davanti alla sua opera "Selva" (1990)
Nunzio davanti alla sua opera "Selva" (1990)
di Donatella Trotta
Martedì 15 Novembre 2016, 11:51
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Il pieno, il vuoto. La luce e l’ombra. E il senso metaforico annidato nelle infinite potenzialità (espressive e formali) della materia, nelle sue continue metamorfosi e relazioni con lo spazio. Nunzio Di Stefano - artista noto sul piano internazionale semplicemente come Nunzio, classe 1954 - è uno scultore che ha fatto tesoro della lezione del suo maestro, e paterno amico, Toti Scialoja: creativo ed eclettico pittore astratto e poeta capace di far trascolorare i cromatismi dei suoi quadri nella sonorità giocosa delle poesie. Di cui Nunzio conosce (e ti declama) a memoria tutti i versi. Come pure le terzine dantesche della Divina Commedia, che recita a occhi chiusi per assaporarne meglio la corposità del ritmo: «Sono parole che hanno una forza, un’identità, una spazialità. E la loro pregnanza vibra dentro in ciascuno di noi, commuovendo» ti dice Nunzio adombrando così la sua poetica. Sviluppata, dopo la scelta di dedicarsi alla ricerca artistica a 24 anni, una formazione all’Accademia di Belle Arti di Roma (con il diploma in scenografia) e il radicamento, dalla natìa Cagnano Amiterno (in Abruzzo), nella capitale, con i fecondi scambi (letterari e artistici) assieme ad artisti (come Bianchi, Ceccobelli, Dessì, Gallo, Pizzi Cannella) che negli anni ‘80, nell’ex pastificio Cerere a San Lorenzo, diedero con lui linfa vitale a una sorta di nuova “scuola romana”, la Scuola di San Lorenzo appunto, come vivace centro della cultura artistica cittadina ed internazionale.
 
Accademico di San Luca dal 2008, insignito di numerosi premi per le sue opere esposte in Italia e all’estero, Nunzio racconta con semplicità e passione il suo percorso: «Un cammino di libertà iniziato per distaccarmi completamente da me stesso – dice – e per non essere legato ad un unico mezzo espressivo». Un itinerario che perciò, dall’uso della polvere di gesso e dell’acquarello per dare forma (e colore) all’informe è passato poi, negli anni ‘90, allo studio e alla manipolazione di materie come il legno di rovere combusto, abbinato al piombo, per dare vita a nuovi contrasti in sculture di lineare nitore: quattro di questa produzione (dall’opera «Selva» del 1990 ad altre tre grandi sculture senza titolo del 2005 e del 2013) sono ora esposte, fino al 31 gennaio 2017, nella nuova Pinacoteca provinciale di Teora (Avellino), in Alta Irpinia, in esclusiva per la rassegna «Irpinia Madre Contemporanea». E una di queste sculture, dopo l’esposizione a Teora, andrà a far parte della collezione del museo Madre, che con la Fondazione Donnaregina di Napoli ha non a caso offerto il “Matronato” alla seconda edizione del Festival irpino, con il patrocinio del Mibact. Lo annuncia il direttore del Madre, Andrea Viliani, presente all’inaugurazione di Nunzio con gli artisti del progetto di “atelier” artistici di via Varco a Rotondi (laboratori permanenti in cui questi importanti esponenti della scena nazionale dell’arte contemporanea vivono e lavorano, per sincronicità junghiana, lungo la stessa strada): Eugenio Giliberti, Umberto Manzo, Perino & Vele, Lucio e Peppe Perone, già ospiti della prima edizione di «Irpinia Madre Contemporanea» 2015; con loro, anche il coordinatore del Festival Giuseppe Mastrominico, la promotrice Antonia De Mita, la presidente del Consiglio regionale Rosetta D’Amelio e il sindaco di Teora, Stefano Farina.

«La Fondazione Donnaregina – spiega Viliani – sostiene e vuole condividere le arti  contemporanee su tutto il territorio regionale. La Campania ha infatti espresso gli artisti più importanti degli ultimi cinquant’anni ed è al centro di tutte le grandi rivoluzioni culturali ed estetiche che hanno scritto la storia dell’arte contemporanea, a livello nazionale e mondiale: da Amalfi 68, alla transavanguardia, alla scena artistica emergente. Siamo una delle realtà più dinamiche nel mondo, con trenta secoli di arte contemporanea alle spalle perché, come diceva un critico, tutta l’arte è contemporanea: anche Caravaggio lo è stato». Di qui, aggiunge Viliani, l’attenzione alla ricerca artistica di Nunzio: del quale sottolinea «l’inconfondibile impronta di un lavoro che dispiega le numerose possibilità formali della materia, le sue molteplici interrelazioni con lo spazio e la luce, il risultato di uno studio capace di conferire, secondo il noto giudizio critico di Giuliano Briganti, misure mentali rigorose, dimensioni nuove e destinazioni più consone a materie altrimenti inerti ed insensibili, senza per questo essere private della loro simbolica e primitiva povertà».

Nunzio sorride e si schermisce. Posa per uno scatto davanti all’unica opera con un titolo, «Selva», fuga stilizzata di vette geometriche ascensionali e discendenti, radici e ali di alberi astratti e metafisici in un orizzonte nero carbone che pare vulcanico, con venature come di lava rappresa di cui dice: «La bidimensionalità è il suo piano di relazione, più donatelliana che michelangiolesca»; accarezza i pieni e i vuoti delle stalagmiti di un’alta scultura di nero legno combusto, che sembra pietrificato nel suo slancio verso l’alto; sosta davanti all’ardito equilibrio di una grande scultura a “L” rovesciata, che sembra sfidare la forza di gravità con le sue linee ardite ed eleganti; e racconta il singolare cono rovesciato di una sorta di vulcano capovolto, a guardare dentro il quale il nero - cristallizzato dal trattamento della combustione che smaterializza la materia - vira nella sorpresa della purezza luminosa di un blu oltremare, uno dei colori più amati dall’artista. «Mi interessa molto – dice Nunzio – il contrasto nel procedimento del cambio di stato della materia. Come il passaggio dalla notte al giorno, e viceversa. Da un lato, il duro legno di rovere; dall’altro il piombo, che è un metallo ma è morbido, plastico, e cambia con la luce. Il processo di combustione, che può mutare lo stato da conduttore a isolante, è un sistema antico, non a caso usato per i vecchi pali della luce».
Luce che, nelle opere di Nunzio, emana dall’interno della materia: «Come negli esseri umani, dove buio e luce albergano insieme con un’energia che, se indirizzata creativamente, può produrre visioni, come avveniva negli scambi con Scialoja, Calvino e i più giovani della loro generazione», continua l’artista. Che, «letteralmente trasportato in Irpinia – aggiunge – che non conoscevo»,  si dice «emozionato e contento di questa avventura per la quale, in base allo spazio a disposizione, con tutti i suoi limiti, ho cercato di creare e adattare una visione di insieme a trecentosessanta gradi. Il giudizio sull’opera lo lascio poi all’osservatore e all’emozione che potrà suscitare in lui. Ma sono fiducioso del futuro dell’arte visiva in Italia, soprattutto con le nuove leve. Ci sono artisti già pronti per recitare un ruolo da protagonisti».
 
Ne è convinto anche Andrea Viliani, il direttore del Madre, che rispetto alla “perifericità” a rischio marginalità dell’Irpinia commenta: «È fondamentale per la Fondazione Donnaregina che ogni territorio sia un centro e non esista la periferia. Ogni periferia può diventare centro, attraverso il veicolo della cultura, dei suoi innumerevoli spunti di ricerca che, con le sue filiere produttive, possono creare anche un ritorno economico per il territorio». Già. È la sfida che, in fondo, riguarda gran parte del Mezzogiorno. In Campania, l’Irpinia sta cercando di giocarla valorizzando territori ancora oggi faticosamente raggiungibili e tuttavia pieni di risorse, ambientali e culturali. Basti pensare al progetto Mnemoteche dell’università Federico II di Napoli per la creazione di un archivio sociolinguistico ed etnografico digitale e di narr/azioni multimediali per la promozione di territori come Ariano Irpino, Greci, San Mango sul Calore, che si avvalse dell’obiettivo operatico 1.10 dei fondi Por-Fesr 2007-2013 «La cultura come risorsa»; oppure, si pensi alla ricca rassegna Lustri. Cultura in dies, che a Solofra, dallo scorso ottobre fino ad aprile 2017, propone un fitto programma di filosofia, teatro, epica, scienze, letteratura e musica. O ancora, per citare una celebrity, basti pensare a cosa è riuscito a fare Vinicio Capossela con lo Sponzfest nella sua natìa Calitri...
 
Gli esempi si potrebbero moltiplicare, includendo altre narrazioni e visioni, supplementi d'anima e di pensiero come quelle, insieme radicatissime in un’identità territoriale e tuttavia di respiro europeo, della scrittrice Emilia Bersabea Cirillo, a partire dai suoi primi racconti di una “paesologia” ante litteram esemplificata nella raccolta Il pane e l’argilla (Filema 1999), e non solo. Ma la speranza diffusa è che i fili di queste narrazioni plurime sappiano poi legarsi armonicamente nell’ordito e nella trama di un tessuto sempre più ampio e diffuso, che arrivi davvero a coprire i reali bisogni (anche sociali) di questi territori. In una continuità non effimera che ne promuova la bellezza, e i valori più nascosti. L'arte, la cultura, la musica possono essere scintille importanti.
 
 
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