«My Generation», l'iniziazione alla vita di Igort

«My Generation», l'iniziazione alla vita di Igort
di Donatella Trotta
Giovedì 24 Novembre 2016, 15:43 - Ultimo agg. 27 Novembre, 10:19
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Che Igor Tuveri, in arte Igort, sia uno scrigno inesauribile di storie (come la sua natìa Sardegna) si sapeva già. Ma risalire alle fonti del suo immaginario mutante, del suo talento eclettico/elettrico, della sua sensibilità vibratile, della sua ironia, degli incontri e delle tappe di iniziazione che l’hanno reso l’artista affabulante, colto e geniale che conosciamo, be’, questa è un’esperienza in parte inaspettata. Che vale la pena di fare. Con una full immersion mozzafiato e avvincente quanto può esserlo il rafting, o il bungee jumping, o il volo in parapendio. Adrenalina pura. Montagne russe di emozioni che risuonano dentro come certi libri o la musica che ti cambiano la vita, riflessi in un lucido flusso di coscienza che è molto più di un personale amarcord nostalgico o autocompiaciuto.

La si può vivere, quest’avventura intellettuale, leggendo My Generation, il nuovo il libro di Igort appena edito da ChiareLettere (pp. 294, euro 19.90): un caleidoscopico memoir che va ben oltre un’”autobiografia” nel senso classico del termine. Perché è – insieme - un divertissement e l’affresco di un’epoca. Un gioco - a tratti tagliente - di specchi e un viaggio di formazione psichedelico. E un racconto sinestetico e torrenziale tra incanto e disincanto del mondo. Ma soprattutto, è un intenso ritratto generazionale di certa “meglio gioventù” italiana – avanguardia del postmoderno dagli anni Sessanta fino ai Novanta, con tanto di colonna sonora e Playlist - che offre così una significativa mappa della «psicogeografia» di infanzie pensose e tormentate, adolescenze periferiche segnate da «lancinanti e abissali» solitudini e “adultescenze” più o meno fragili. Tra Cagliari, Londra e Bologna: tappe esistenziali e luoghi dell’anima per ragazzi squattrinati in perenne rivolta e giovani oltre le convenzioni sociali del tempo, alla ricerca di un’affermazione artistica coincidente con un cammino di emancipazione e (forse) di liberazione.

My Generation, orchestrato da Igort come un disco in vinile con un lato 1 (la sua stralunata infanzia e adolescenza nel segno dell’«uomo che cadde sulla terra») e un lato 2 (le esperienze accumulate dopo la “fuga” dalla Sardegna), è una sorta di libro-locomotiva per lettori-viaggiatori sedentari, appassionati di microepopee postmoderne. Perché non racconta “soltanto” (e già non sarebbe poco) l’epifania della vocazione di Igort e la sua poetica di sognatore di storie e disegni, coltivata con la tenacia incrollabile di uno autoconsapevole, sin da bambino, che «vive per raccontare» rendendo, magari, il sogno della passione del narrare una vera e propria professione (anche grazie a un lavoro durissimo, come il motto inculcatogli dall’eccentrico papà/patriarca Tuveri: «Il genio è fatto anche di costanza»). Narrazione di molteplici storie nello scorrere della Storia, il libro apre la porta della personale Wunderkammer dell’infanzia e della gioventù di Igort svelando un museo sentimentale di poetici universi sensibili e dell’immaginario (alla Antonio Catalano, per intenderci, ma qui “speziati” di fantascienza e punk rock); delinea il laico e irriverente Pantheon di baby Igor, dapprima seguace di una Trimurti composta da Iggy Pop il nichilista, David Bowie l’istrione e Lour Reed il felpato, poi arricchito di continuo da altri nomi-scoperte tra musica, fumetto, letteratura, cinema e “controcultura” varia; e racconta così numi tutelari e molteplici figure di contorno in quest’affresco: tra i quali Moebius lo sciamano delle strisce disegnate, Salinger il guru di teenager ribelli, Camus, Sartre e l’esistenzialismo, l’oltraggio dei Sex Pistols con la gioventù bruciata di Sid Vicious e le visioni di Kubrick, le provocazioni di Andy Warhol e Keith Haring e le lezioni di Gianni Celati al Dams bolognese di Umberto Eco, seguite in compagnia di altri “studelinquenti” come Roberto Freak Antoni, Andrea Pazienza-Paz, Pier Vittorio Tondelli, Claudio Piersanti, Enrico Palandri.

Il libro è sorretto dall’originalità di una cifra stilistica che intreccia racconti visivi, scrittura sorvegliata e asciutta con ritmi a tratti cinematografici o fumettistici, costellati di onomatopee, e qualche tavola “storica”: memorabili certe pagine fitte di gustosi e grotteschi aneddoti, ai limiti del surreale, sulla “fucina” di Animal House, sull’esperienza in radio, sulla nascita del gruppo sperimentale di Valvoline con Brolli, Carpinteri, Kramsky, Mattotti e, ancor prima, sul ’77 a Londra: in un mondo effervescente di esclusi tra Piccadilly Circus, Camden, Notting Hill. In questo contesto Igort scrive, disegna, canta, suona, compone, fa mille mestieri. Ma a un certo punto del viaggio, al bivio tra pulsioni di morte - che hanno annientato molti giovani di quella generazione - e sentieri di salvezza, ecco che irrompe l’indicibile: la bomba della strage alla stazione di Bologna. E l’assassinio con 47 coltellate della critica d’arte e ricercatrice Francesca Alinovi, amica di quei ragazzi pieni di sogni di gloria.

È la svolta, brusca e drammatica, che segna la fine dell’innocenza. Per qualcuno, l’inizio del “riflusso”. Per Igort, la consapevolezza estrema che la differenza può farla, ancora una volta, la fantasia – l’immaginazione - «esercitata come un muscolo», proprio come la meraviglia salvifica delle grandi passioni coltivate e mai abbandonate. Quelle condivise, alla fine, persino con il padre/patriarca, perso nel 1993, al quale è dedicata l’antiretorica lettera al termine del volume, con tanto di sberleffo che pare un sigillo: l’icona tragica dell’Uomo che ride, smorfia del «riso falso del dolore», quasi a mascherare la fasullagine del mondo reale. Phoney, termine della lingua inglese che ricorre spesso in questo libro, allergico alle ovvietà come il suo autore. Ed è proprio nel clima “postresistenziale” e sperimentale evocato da My Generation che l’Italia vista dallo sguardo eccentrico e straniante, iconoclasta e acuminato di Igort - esploratore dell’esistenza con il suo gruppo di narratori vagabondi e artisti più o meno sregolati – riesce in fondo a rivelare il suo volto più vero.

Igort ne ha parlato a Napoli, nella Sala del Capitolo di San Domenico Maggiore, svelando le radici della sua ispirazione: «Questo libro, per me, è una felice cavalcata sulle piste della cultura pop - ha detto Igort -, un inno alla gioia che accompagna la mappa personale e collettiva di una controcultura che, in uno scambio e in un incrocio forte tra menti brillanti dell'epoca, generava comunque un tessuto. Sociale, artistico, culturale. Quel tessuto, oggi, è strappato - ha aggiunto - a fronte di isole di senso sparse per le quali occorre stringere le fila, per contrapporsi a un periodo di idiozia totalitaria. Napoli, oggi, mi ricorda per potenza creativa ed energia la Bologna della mia gioventù. Ha un potere di seduzione immenso, che può anche sopraffare. CI sento tutte le culture che l'hanno attraversata. Ma deve organizzare meglio le sue energie. In questo senso, il mio libro è anche una "chiamata alle armi": non si può continuare a coltivare solo il proprio giardinetto, per quanto rigoglioso, altrimenti appassisce».

Il giorno dopo, ricevendo il Premio Napoli 2016, assegnatogli in una cerimonia nel teatro Sannazaro «per la sua sperimentazione formale dei linguaggi del fumetto» ma anche per essere «uno dei più significativi comunicatori della cultura italiana fuori dei nostri confini», Igort ha ribadito: «Fondamentalmente, mi considero un meticcio, e mi piace il meticciato. Per questo amo il fumetto, che è uno sconfinamento tra immagine e parola per raccontare la realtà o per esprimere visioni. E sono un viaggiatore, uno che ha l'evasione facile. Ma quando viaggio non cerco la replica di ciò che già conosco, semmai mi abbandono a ciò che non conosco per sempre nuove illuminazioni». Il satori d'artista. Ma Igort ama precisare, con la consueta ironia: «Il mio mito non è quello dell'artista ma del panificatore: amo la sua disciplina, svegliarsi presto, cercare la farina buona, impastare e infornare. In una ritualità quotidiana che scandisce la vita con gesti di ripetuta, artigianale perfezione». Metafora di ogni lavoro ben fatto. Come le dediche disegnate che, con cura, Igort elargisce con generosità ai suoi fan in paziente attesa.
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