Dascanio, quando il realismo figurativo guarda al Rinascimento

Emanuele Dascanio mentre disegna una sua opera
Emanuele Dascanio mentre disegna una sua opera
di Donatella Trotta
Giovedì 14 Aprile 2016, 23:33 - Ultimo agg. 10 Giugno, 15:42
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La natura come mistero da svelare. E i volti delle persone come libri da leggere, interpretare, riverberare in ritratti che ne colgano l'essenza interiore.L'orizzonte artistico di Emanuele Dascanio, giovane ma già affermato esponente della pittura figurativa realista, oscilla tra questi due elementi. A un tempo oggettivi e simbolici. 

"Non ho alcun soggetto preferito, mi interessa prevalentemente il contenuto dell'immagine e ciò che ne deriva, ricreato in figure allegoriche che nascono dal mio inconscio come dalla mia intuizione", spiega per la prima volta a Napoli, dove è stato invitato dallo Studio 3 Arte di Bianca Stinchi e Rosa Carignani per tenere un workshop di tre giorni sulle tecniche della grafite e del carboncino. Già, avete capito bene: una semplice matita. Che nelle mani di questo artista milanese 33enne, di indiscutibile talento e generosa propensione didattica, vola lieve sulla carta, indugia e poi tratteggia, sfuma e incide, cesella e trasforma, ritrae e trasfigura, generandole, immagini preziose e apparentemente senza tempo, tra luci e ombre: chiaroscuri che rispecchiano la vita. Il suo bene, il suo male. La sua bellezza. Sino a fissare per sempre scene, visi, corpi talmente veri nei loro dettagli da sembrare fotografie d'arte in bianco e nero. 

Una tecnica sorprendentemente iperrealistica sorregge senza dubbio questi ritratti, come le opere ad olio di nature morte (ma estremamente vive) di Dascanio, ulteriori frammenti di contemporaneità a colori. Esteticamente perfetti. E non a caso ricercati ed esposti in mostre (personali e collettive) in Italia e all'estero: Spagna, Germania, Singapore. Ma non solo. Nella ricerca figurativa di Dascanio avverti subito che non è unicamente il talento, unito alla tecnica, a sorreggere una produzione instancabile. Senti che c'è dell'altro. Un senso di seducente inattualità. Un sapore di passato che non è tuttavia un banale déja vu perché è sempre nuovo. Ma anche uno sguardo. Curioso, onnivoro. Che non vuole cavalcare mode, ma offrire visioni per restare, a suo modo, nel tempo. Anzi: oltre il tempo.

Te lo spiega l'artista stesso, con disarmante semplicità, quando sottolinea l'importanza dei suoi maestri, del rapporto maieutico instaurato con loro: "Devo tutto - dice - a Gianluca Corona, a sua volta allievo del grande maestro Mario Donizetti, pittore e saggista. Da lui ho imparato la tecnica della pittura ad olio, e ho affinato quella del disegno che, da autodidatta, praticavo sin da adolescente, senza però riuscire a trovare una via per perfezionarmi. E dopo una deludente esperienza all'Accademia di Brera, seguita da due-tre anni di ricerca solitaria, l'incontro con Corona mi ha cambiato la vita. Perché ha saputo tirar fuori da me tutto ciò che avevo dentro". 

La via dell'arte, così, per Emanuele Dascanio non è passata per i portoni degli impersonali specialismi accademici ma si è svelata nel cortocircuito dell'incontro. Proprio come nell'antico rapporto (da anima ad anima) tra discepolo e maestro delle discipline (artistiche, marziali) orientali. Ma anche come nelle botteghe del Rinascimento italiano, fucine di grandi talenti. Dascanio, con la sua scelta controcorrente, ha così attraversato la porta stretta dell'umile e paziente artigianato, intriso di sudore e perseveranza, studio accanito, attesa e speranza, sperimentazione costante, ambizione e sfida continua con se stesso. "Molto spesso, quando non sono in giro, lavoro dalle dodici alle quattordici ore al giorno", confida. E il giovane nativo di Garbagnate Milanese, vissuto in un paesino della provincia di Milano, Senago, è riuscito infine ad aprire un proprio atelier in Piemonte, a Valenza Po (Alessandria), rispondendo ai numerosi inviti di laboratori che da circa tre anni lo chiamano, da tutta Europa, a trasmettere a sua volta i "segreti" di un mestiere antico e affascinante, esercitato, in passato, da geni come Leonardo o Michelangelo.

"Da piccolo - sorride Emanuele schermendosi - volevo fare l'inventore. Ma è nell'arte che ho trovato il senso della mia ricerca, con una matrice insieme psicologica, fisica e spirituale". Una ricerca, aggiunge, basata essenzialmente sulla luce: "Senza, nulla può esistere. Cambia la nostra percezione, ha la capacità di raccontare storie e di dare vita al soggetto mentendo, o dicendo la verità". Ma non teme di essere sminuito, con le definizioni di un iperrealismo che assimilano le sue opere a istantanee fotografiche? "Io utilizzo la fotografia - spiega - ma come una mappa, uno strumento che mi aiuta, essendo cieco nel punto di fuga, a definire la mia poetica, attivando processi creativi che possono partire da un concetto pensato, poi espresso in un quadro che lo esprime, o in un'immagine inconscia che nasce dentro di me e poi viene rielaborata nel suo significato attraverso veloci studi preparatori che catturano l'idea iniziale. Ma se posso, preferisco fare studi dal vero. In treno, venendo qui,sono rimasto molto colpito da un anziano, visibilmente sofferente. Avrei voluto ritrarlo, ma non ho voluto invadere la dimensione intima del suo dolore. Le persone restano, per me, potenti fonti di ispirazione". 
  
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