I rilevamenti del ministero parlano chiaro: i cinque siti culturali statali più visitati sono il Colosseo (oltre 7 milioni), Pompei (3,4 milioni), gli Uffizi (2,2 milioni), l'Accademia di Firenze (1,6 milioni) e Castel Sant'Angelo (1,1 milioni). Significativi incrementi hanno registrato anche musei problematici come Capodimonte (+21% dal 2016 al 2017), e in generale la Campania; con oltre 800.000 visitatori lo stesso Palazzo Reale di Caserta, sia pur partendo da basi già cospicue, è cresciuto di quasi il 23%. A Capodimonte Sylvain Bellenger aveva di fronte due prime sfide: collegare il museo al centro e occuparsi del parco, ribattezzato real bosco per rammentarne la maestosa estensione. A Paestum Gabriel Zuchtriegel promuove importanti scavi, e ricerche in connessione con realtà istituzionali e aziendali della Regione. I due «stranieri» della Campania sono diventati popolari in fretta con una ricetta semplice: lavorare tantissimo, a prescindere dalle difficoltà, integrandosi nel difficile, a volte conflittuale contesto della cultura napoletana.
Franceschini definisce «eccezionale» l'incremento registrato: dai 38 milioni del 2013 ai 50 milioni del 2017, i visitatori sono aumentati in quattro anni di circa 12 milioni (+31%) e gli incassi di circa 70 milioni di euro (+53%). È difficile definire quanto queste cifre abbiano soprattutto a che fare con il notevole incremento di flussi turistici in Italia, sia domestici sia internazionali. L'attenzione mediatica intorno alla riforma e la pressante indicazione di incrementare le rispettive platee di pubblico hanno portato a intensificare le iniziative promozionali, la comunicazione, la discussione (persino in politica!) sulle scelte dei musei: un esempio per tutti è il caso dei biglietti agevolati per i visitatori di lingua araba del Museo Egizio di Torino. Come in quasi tutto ciò che è pubblico in Italia, anche per i musei le luci e le ombre non di rado si bilanciano: i vuoti di organico sono spaventosi per il blocco del turnover (avvicendamento tra pensionati e nuovi assunti) che sta letteralmente estinguendo non solo i funzionari (ma qualche assunzione c'è stata negli ultimi due anni), ma soprattutto il personale di custodia e quello amministrativo. Chi scrive conosce a fondo alcune situazioni che in questo aspetto sono ormai drammatiche, con vuoti di organico anche del 70%.
C'è poi il problema della conservazione, del restauro e dello studio delle opere possedute dai musei. Pochi soldi per restauri, meno ancora per gli aggiornamenti della catalogazione, crescente indebolimento del legame tra musei e territori circostanti. E progressivo declino del livello del lavoro scientifico che altrove, invece, si sostiene con borse di studio, accordi con università di altri paesi, investimenti adeguati in laboratori e pubblicazioni. Non siamo a zero, ma se pensiamo al punto in cui eravamo mezzo secolo fa abbiamo fatto passi indietro inquietanti.
In Italia il pubblico sembra sempre meno interessato ai musei in quanto tali, e sempre più li vede come luoghi di esperienze effimere o di eventi performativi, rassegne cinematografiche, celebrazioni di miti contemporanei dello sport, saghe di cibi tipici, videorassegne, etc. Il museo di ieri era elitario, più povero di glamour, indissolubilmente legato alle opere che conteneva. Poi sono venuti gli anni Ottanta con le Grandi mostre, casi-pilota sono stati, a Napoli, le due Civiltà: quella del Settecento (1979-80) e quella del Seicento (1984-85). Da lì in poi l'Italia ha attraversato, con alti e bassi legati ai cicli economici, un processo di integrazione con realtà europee ed extra europee molto diverse dalla nostra. È provinciale pretendere che direttori di musei italiani siano solo italiani e non almeno europei (peraltro: alcuni degli italiani reclutati da Baratta lavoravano in musei americani prima di gestire quelli italiani in cui sono ora). Nell'università italiana i concorsi sono aperti agli europei, e molti extraeuropei vi lavorano da decenni; figure di revisori di commissioni importanti devono per legge essere straniere, e molti varchi si sono aperti nella pubblica amministrazione.
È però altrettanto provinciale pensare che chi ha lavorato per decenni nei musei italiani in condizioni miserevoli, del tutto ignorato dall'opinione pubblica prima ancora che dai media, fosse sempre inadeguato o impreparato a sostenere le nuove sfide dell'industria culturale pubblica del nostro paese. I salari più alti dei nuovi direttori hanno creato molti mal di pancia in chi da anni aspettava le risorse per competere al meglio con le più prestigiose istituzioni internazionali, il riconoscimento dei propri meriti, la valorizzazione di un capitale umano che è ancora tra i migliori del mondo. Parlare della riforma Franceschini in termini di stranieri-sì/stranieri-no è semplicistico. Non è una questione di «benaltrismo»: le cose sono complicate, e hanno a che fare con un ripensamento urgente, radicale e complessivo delle politiche pubbliche della cultura in Italia, e degli investimenti che la mano pubblica intende stabilmente fare in questo campo.