I sessant'anni di Mimmo Jodice: «Le fotografie nascono con la testa e con il cuore»

I sessant'anni di Mimmo Jodice: «Le fotografie nascono con la testa e con il cuore»
di Alessandra Pacelli
Lunedì 3 Dicembre 2018, 11:00
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«Vorrei ancora tempo, molto tempo per lavorare. Sono pieno di idee, suggestioni, progetti da realizzare. Io penso alcune fotografie e già le vedo: sono già dentro di me, concrete». Mimmo Jodice è un fiume in piena che si racconta, e parlando di sé srotola la storia della fotografia della seconda metà del Novecento, che lui ha attraversato da grande protagonista. «Senza Angela tante cose non le avrei potute realizzare - dice guardando la moglie, straordinaria e presentissima compagna di vita e di avventure artistiche - ma quella che mi ha guidato è stata sempre la mia immaginazione. Dentro di me l'immaginazione, fuori di me la luce. Ecco, sono questi i due elementi fondamentali per fotografare».

Lo studio di Mimmo Jodice è pieno di sue fotografie nate dunque con la testa e con il cuore, immagini che congelano i paesaggi in visioni senza tempo, cristallizzano il mare, gli scorci urbani, la statuaria classica in presenze metafisiche che più che narrare se stesse scavano nell'animo di chi guarda, in un incredibile gioco di specchi in cui anche l'artista si svela. E poi ci sono scaffalature piene di libri. «Più di quattromila volumi solo di fotografia. La mia storia non nasce dalla fantasia ma dallo studio di tutti i grandi autori di cui da sempre mi sono nutrito: io guardavo e leggevo, incameravo immagini e intanto elaboravo il mio progetto. Sapere e poi fare. Questo è il mio messaggio per i giovani di oggi». Messaggio trasmesso anche in 25 anni di insegnamento all'Accademia di Belle arti di Napoli: «Quando ho iniziato a insegnare la fotografia non esisteva come materia. I miei primi incarichi erano in qualità di tecnico, poi il direttore di allora, Franco Mancini, si rese conto del grande seguito che avevo con gli studenti e fu lui a sollecitare al Ministero la nascita di una cattedra. Fu la prima in Italia». E poi continua: «Mi sono sempre battuto perché la fotografia fosse ritenuta uno dei grandi linguaggi dell'arte. Oggi sembra tutto scontato, ma negli anni 60 nessuno accettava la fotografia come opera d'arte».
 
Mimmo Jodice ricorda, rievoca atmosfere e racconta l'evoluzione del suo lavoro mostrando immagini e sfogliando decine di suoi cataloghi. E quella che scorre è anche la storia di Napoli: «Negli anni 60 il fare fotografia era legato all'impegno sociale: noi militavamo nel Pci, la nostra era una ricerca politica che ci portava nei manicomi, nelle carceri, nelle periferie più povere, a raccontare il disagio, il dolore della gente. Siamo cresciuti nella speranza che col tempo la situazione sarebbe cambiata - e qui indica la sua foto di una folla oceanica alla Festa dell'Unità del 72 - E invece nulla. La mia disillusione fu grande. E quindi la città nelle mie foto si svuota. Diventa muta». Il suo libro Anni Settanta è infatti ancora centrato sulle persone e sulla denuncia delle ferite della città: la speculazione edilizia, il colera, gli ospizi, i vicoli, il lavoro minorile - c'è una foto sconvolgente in cui due ragazzini trasportano su un carretto una bara - e i migranti di allora, quando a partire in cerca di lavoro eravamo noi, i meridionali, gli italiani del Sud. E lui racconta e dice «guarda, guarda questa foto», e scorrono le facce antiche di donne giovani già segnate dalla fatica, un bambino dentro uno scatolone di cartone come un cacciuttiello. «Queste foto le stampavamo grandi e le mettevamo di notte a via dei Mille, perché la Napoli bene doveva sapere cosa succedeva nelle periferie. Doveva vedere. All'epoca non si facevano mostre su questi temi».

Poi negli anni 80 non c'è più il clamore della gente: le foto di Jodice si spopolano, si richiudono nel loro silenzio, come in Vedute di Napoli. «Si fa strada in me la consapevolezza che nulla sarebbe cambiato e quindi la mia visione della città diventa vuota, viene meno la presenza umana. Ma è un'assenza rumorosa, che si impone e apre interrogativi dolorosi». E aggiunge: «Delle volte ho pianto mentre fotografavo gli ospedali, le carceri, i manicomi». Negli anni 90 Mimmo Jodice è come se, in una sorta di chiusura esistenziale, avesse maturato uno sguardo rivolto alla storia remota fotografando le sculture classiche greco-romane. «Quello è stato il mio viaggio nel passato. Sono andato alla ricerca delle mie radici, dell'origine della nostra cultura che mi desse la possibilità di ritrovarmi. E con la statuaria classica anche la riscoperta del Mediterraneo e delle sue atmosfere pacificanti. Mi sono detto: ecco, noi siamo questo».

Gli anni duemila sono invece quelli dello sguardo che si allarga al mondo. «Sì, ho fotografato le grandi capitali internazionali - San Paolo, Boston, New York, Montreal, Mosca, Tokyo, Lisbona - una visione metafisica del mondo». Ed ecco l'immagine di una Venezia immota, senza turisti, come affondata nelle nebbie della sua laguna. «Sono fantasmi di città». E c'è una foto di Torre del Greco che sembra un quadro di Sironi, con le ciminiere e le costruzioni di mattoni. «E poi c'è la grande mostra del 2011 al Louvre, l'unica mostra di fotografia mai fatta in quello strepitoso museo: cento mie immagini incentrate sullo sguardo, occhi di quadri e di persone vere messi sullo stesso piano e che si confondono tra loro». Mimmo Jodice racconta con l'entusiasmo di un ragazzo, con la gioia consapevole di chi ha lavorato bene. E alle sue spalle sono appese al muro le lauree honoris causa, il cavalierato conferitogli dalla Repubblica francese, il premio dell'Accademia dei Lincei che per la prima volta riconosce valore a un fotografo. «Ho avuto tante soddisfazioni, tante mostre nei più importanti musei del mondo. È così che si arriva agli 84 anni!» dice, sapendo di essere anche un bell'uomo dal fascino immutato. «Il mio segreto è non aver mai fatto una bella fotografia ma aver sempre lavorato avendo in mente temi che fossero espressione creativa della mente», afferma tornando subito serio.

E arriviamo infine ad «Attesa», la più ampia mostra antologica mai dedicata a Mimmo Jodice che due anni fa gli ha dedicato il Museo Madre, e il cui esito è l'imponente monografia Attesa/Waiting a cura di Andrea Viliani, che ora pubblica Electa e che verrà presentata venerdì prossimo alle 18 nel museo napoletano. Un volume di 656 pagine con un ricchissimo apparato iconografico, che accoglie un apparato scientifico aggiornato, approfondimenti testuali, e saggi inediti di Salvatore Settis, Ester Coen, Nicola Spinosa, Marta Gili e Vera Kukilski, Andrea Viliani e una lunga intervista all'artista di Hans Ulrich Obrist.

«Questa mostra al Madre è stata il condensato del mio lavoro di una vita. Quando Viliani arrivò a Napoli venne qui al mio studio e subito parlammo di fare una grande mostra insieme. Ecco, ci siamo riusciti e abbiamo anche fatto un record di visitatori». Ma che cosa vuol dire l'attesa? «L'attesa è un'ansia che ciascuno si porta dentro. Ogni giorno che passa presuppone l'attesa del tempo che scorre, che per di più è un tempo con una fine... L'attesa è la vita stessa».
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