Mimmo Jodice al Madre, l'«Attesa» è finita

Mimmo Jodice al Madre, l'«Attesa» è finita
di Alessandra Pacelli
Venerdì 17 Giugno 2016, 13:45 - Ultimo agg. 18 Giugno, 10:19
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«Sarà il mio lascito: sono anni che mi porto dentro l'attesa, e finalmente adesso è qui, visibile». È come un'intima confessione questa mostra antologica di Mimmo Jodice che apre al museo Madre di Napoli il 23 giugno, a cura di Andrea Viliani e intitolata appunto «Attesa», che non solo rende conto dell'opera di un artista straordinario ma soprattutto è il ritratto di un uomo e della sua consapevolezza dello stare al mondo. «Il mio è un lavoro che non dà mai consolazione, ma fa riflettere, punge. E un lavoro che rimanda sempre un'ansia, un'interiorità mai calma». Quel sentimento panico che accompagna l'esistere, in cui Jodice si cala completamente restituendoci il suo sguardo che ricalca il vuoto, che crea spazio al nulla, all'assenza, alle atmosfere immobili e perturbanti del silenzio. Dell'attesa.«L'attesa è una condizione che ci coinvolge intrecciandosi con l'ansia, l'incertezza, la speranza, il timore, i dubbi - spiega - La dimensione visiva dell'attesa è il silenzio che riempie ogni luogo, che trasforma gli spazi in sale di attesa immaginarie. Sono luoghi irreali, senza tempo, dove l'attimo e l'eternità si alternano senza fine».
 
 

E ancora: «Le mie sono più che mai immagini sospese nel tempo, raccontano momenti vuoti, luoghi dove non si sa se arriverà mai qualcuno. Sono inquietanti, senza pace: succederà mai qualcosa? Eppure queste fotografie di finestre aperte sul nulla, affacciate su un muro, o addirittura finte, fanno pensare che c'è ancora voglia di aspettare». Ed è forse per questo che anche il paesaggio, qui, lievita a una dimensione interiore, unisce la memoria dei luoghi ad una classicità eroica, con un senso di vastità che toglie il fiato. I drammi del territorio sono congelati, resta spietato l'esercizio del dubbio interiore. E l'assenza di persone diventa testimonianza del loro percorso nei secoli, e si fa sempre più ingombrante. «Le persone sono scomparse dalle mie fotografie quando ho vissuto la delusione per la città che non riusciva a cambiare. E per raccontare questa amarezza ho cominciato a fotografare l'assenza. Le mie vedute di Napoli di fine anni Settanta riflettono la fine della speranza. Ecco allora foto di luoghi vuoti, porte chiuse, cancellate come sbarre, muri come sudari. Al senso profondo di smarrimento è subentrata la necessità di rappresentare la fine. Un'idea, un sentimento, che io mi portavo dentro già da bambino e poi come uomo». Un percorso interiore che si può riassumere in tre fasi fotografiche: la memoria personale fatta di inquietudine e di malessere, l'impegno civile con la denuncia sociale, poi la delusione. Ma a tutto questo Jodice ha reagito con una forma ancora maggiore, benché molto diversa, di fotografia di denuncia. «L'attesa è invece un capitolo nuovo, ho ricominciato ad aspettare che qualcosa accadesse. La mia attesa intima, indicibile, mi ha però accompagnato ininterrottamente. Come accompagna tutti, un bisogno che ognuno si porta dentro: è una speranza per il bene - speramm' ca succede - oppure una speranza che argini il male - speramm' ca non succede - sentimenti quotidiani e universali. Cos'è per me l'attesa? Una visione del mondo senza tempo in bilico tra le possibilità dell'accadere».

Ma come procede il fare fotografia di Mimmo Jodice? «Tutto nasce da una riflessione di fronte alla realtà: mi posso esaltare o indignare, ma c'è sempre una mia emozione, un mio pensiero dietro alle fotografie. Per gli altri temi, come il mondo antico o le città, devo trovare sì le mie visioni ma il soggetto è quello. Con Attesa invece, per la prima volta mi sono trovato faccia a faccia con qualcosa che è solo dentro di me, e devo farlo venire fuori». Ma infondo il senso più profondo dell'arte è proprio il riuscire a trasmettere agli altri quello che nutre l'interiorità, e fotografare per Jodice è un continuo mettersi a nudo, riconoscere nella realtà pezzi di sé, ritrovare fantasmi, pensieri, idee, soprattutto emozioni. Passare da un mondo all'altro, varcare una soglia intima. E questo consegna alle immagini una forza potente, esaltata dall'impeccabile qualità formale.«Continuo a domandarmi perché per così tanto tempo la fotografia non è stata ritenuta arte. Se mi posso attribuire un merito è quello di aver contribuito a far entrare di diritto la fotografia nei linguaggi artistici. Anni fa mai avrei immaginato di poter fare una mostra al Louvre». E lui è stato il primo fotografo vivente ad esporre nel più importante museo del mondo, ad avere grazie al suo lavoro riconoscimenti internazionali unici in Italia e all'estero: lauree honoris causa, l'accesso all'Accademia dei Lincei, cittadinanze onorarie (a Boston, a Philadelphia), la nomina a Cavaliere della Repubblica francese.«La macchina fotografica è uno strumento come il pennello del pittore. Quello che conta non è il mezzo o i materiali usati, l'importante è la capacità concettuale di creare arte, di emozionare. Non mi interessa la bellezza fine a se stessa, non cerco il bello, ma trovo per caso cose che mi riguardano e le ritraggo assecondando un'incessante ricerca interiore. Io aspetto sempre, anche adesso, di poter ancora fare un lavoro che mi appartenga, in cui possa riconoscermi come uomo. Io aspetto l'attesa».
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