Artiaco, l'ex ragazzo con il sogno dell'arte

Artiaco, l'ex ragazzo con il sogno dell'arte
di Alessandra Pacelli
Lunedì 12 Dicembre 2016, 11:49
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«La mia più bella mostra? Ancora non l'ho fatta». Per Alfonso Artiaco quella di domani è una data importante: esattamente il 13 dicembre di trent'anni fa iniziò la sua attività di gallerista. Allora era un giovane di 22 anni con tante belle speranze, un gusto già molto preciso e una grande caparbietà. E infatti di strada ne ha fatta tanta, partendo da Pozzuoli e imponendosi non solo a Napoli (la sua raffinata galleria ora è in un palazzo monumentale a piazzetta Nilo 7, dove sabato alle 19 sarà inaugurata una grande mostra celebrativa con una trentina dei suoi artisti storici) ma anche a livello internazionale. Basti citare la sua partecipazione fissa alle fiere di Basilea e Miami, la presenza costante di suoi artisti agli eventi imperdibili come Biennale di Venezia o Documenta di Kassel, oppure basta scorrere il suo sito e trovarci una carrellata di mostri sacri come Darren Almond, Carl Andre, Robert Barry, Gilbert & George, Liam Gillick, Thomas Hirschhorn, Wolfgang Laib, Sol Lewitt, Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Anri Sala, David Tremlett, Lawrence Weiner, ma anche napoletani come Lello Lopez o Perino & Vele.

Il bilancio del suo trentennale è decisamente positivo, ci racconta invece l'Artiaco di quel lontano 1986?
«Ero un ragazzo di 22 anni che voleva trasformare in qualcosa di concreto la sua passione per l'arte contemporanea e il collezionismo. La mia direzione professionale era quella dell'insegnante di educazione fisica, ma mi bastarono 15 giorni di lavoro in una scuola per capire che non sarei stato un buon professore».
Ma il passo per trasformarsi da appassionato dell'arte in gallerista?
«Mi aiutò il bradisismo a Pozzuoli, che fece liberare un palazzo della mia famiglia. Mio padre acconsentì a darmi un appartamento che divenne la mia prima galleria: Spazio d'Arte Alfonso Artiaco».
E come è riuscito a farsi notare?
«La fortuna fu che l'arte a Napoli in quegli anni già parlava al mondo, e le poche gallerie di allora erano molto all'avanguardia. Io mi sono subito diversificato occupandomi di arte concettuale e minimal. E poi ho rischiato, mi sono messo in gioco».
La prima mostra in quel fatidico 13 dicembre?
«Una collettiva intitolata Possibilità di collezione con opere di Alfano, Pisani, Paolini, Schifano, Boetti, Ontani, Cucchi, Pistoletto, Warhol e Beuys. Alcuni lavori erano della mia collezione, altri me li feci prestare. Non vendetti nulla, ma ero felice».
Il suo primo cliente invece chi fu?
«Ernesto Esposito, che acquistò da me due piccole tele di Warhol: un Mao e una Jacqueline. Il secondo fu Roberto Buonanno, che è rimasto il mio più fedele collezionista di Pozzuoli».
In quegli anni, quali artisti l'hanno particolarmente stimolata?
«Sol Lewitt che espose da me le sue piramidi capovolte: un evento. E Penone, il primo ad aver fatto un lavoro specifico per la mia galleria, con due grandi teche con la terra di Cuma e della Solfatara».
Il rapporto con gli altri galleristi napoletani?
«Così giovane ero un po' la loro mascotte. Mi hanno molto sostenuto Peppe Morra e Pasquale Trisorio».
Cosa ha imparato in questi anni?
«A consolidare la mia storia di galleria, a guardarmi sempre intorno mantenendo viva la curiosità, e pensare sempre che non ho ancora fatto la mia mostra più bella».
Un artista che ha dovuto inseguire molto?
«Paolini, che ho sempre ammirato per la sua raffinatezza culturale. Ma allora lavorava con Amelio. Oggi è con me».
Quando ha deciso di lasciare Pozzuoli per Napoli?
«Ho sempre coltivato l'idea di arte globale, non legata a una geografia. Però a Napoli veniva riconosciuto un ruolo di città-faro per l'arte, così nel 2002 faccio il grande passo favorito anche dall'opportunità di poter prendere gli spazi che erano stati di Lucio Amelio».
Un'eredità un po' ingombrante?
«No, io ero già forte della mia storia e delle mie proposte, ero commissario italiano per la Fiac di Parigi e per Arco a Madrid. Avevo già portato Gilbert & George a Capodimonte. Sapevo di avere le spalle larghe».
E la scelta di spostarsi poi a piazzetta Nilo?
«Uno spazio di 600 mq in un palazzo stupendo in pieno centro storico era un'occasione da non perdere. E poi avevo la necessità di una galleria più grande per progetti più ampi».
Rapporti con il museo Madre?
«Il problema è che è un museo senza una vera collezione, nonostante i tanti sforzi per portare avanti una buona programmazione. Invece per Napoli l'arte è un attrattore importante, basti l'esempio di Torino che da città industriale si è trasformata in polo culturale».
Cosa vuole fare nei suoi prossimi trent'anni?
«Mi piacerebbe trovare un luogo dove poter sistemare la mia collezione, in modo che sia fruibile e che racconti la mia storia umana e di gallerista».