Il Signor Bonaventura compie 100 anni, nel 1917 debuttava sul Corriere dei Piccoli

Il Signor Bonaventura compie 100 anni, nel 1917 debuttava sul Corriere dei Piccoli
di Simona Orlando
Venerdì 27 Ottobre 2017, 15:31 - Ultimo agg. 28 Ottobre, 18:35
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Cento anni fa, cifra tonda come il suo milione, cominciava l’avventura del Signor Bonaventura, quella figura stilizzata che sembrava uscita da una rivista futurista, di età indefinita, con pantaloni bianchi e redingote rossa, bombetta in testa e fedele bassotto, travolta dalle catastrofi della vita eppure sempre salvata in calcio d’angolo dalla sua stessa genuinità. Il 28 ottobre 1917 comparve sulle pagine del Corriere dei Piccoli per mano di Sergio Tofano, Sto, nell’abbreviazione poi diventata celebre, che proprio lì, dietro al tratto elegante e alle storie rocambolesche a lieto fine, mise i bambini d’Italia al riparo da guerra e miseria. Niente a che fare con gli eroi americani. Originale e tutto italiano, contrapposto al popolarissimo Fortunello, il Bonaventura sgobbava peggio di un ronzino facendo lo spazzino, lo sguattero, l’arrotino, lo spaccapietre, la comparsa, fu addirittura senzatetto nel dopoguerra, e non dialogava con i balloon, la tipica nuvoletta dei fumetti, ma in ottonari garbati (lo stesso bassotto nacque per necessità di rima con ‘di sotto’), rispondendo alla malasorte e al torvo Barbariccia, faccia e anima gialliccia, sgambettando fra le sciagure finché la sua lealtà non riscuoteva un milione grande come un lenzuolo. Un’iperbole nel paese che canticchiava ‘Se potessi avere mille lire al mese’. Un gioco di fantasia, quasi un oggetto di scena, perché ‘non erano i milioni reali, origine di tanti mali, ma milioni per finta, di carta dipinta’, la ricompensa garantita per l’onestà e le buone azioni. E infatti con tutto quel denaro finiva magari a comprarsi un salame, e all’avventura successiva ripartiva da zero, povero in canna, seguendo il medesimo schema: un umile mestiere, la sventura, la ventura, il premio. Simbolico, irreale. Perciò Sto non gradì quando per l’inflazione la banconota diventò un miliardo, trasformandosi in entità di calcolo.

Quelle vignette in versi furono un appuntamento gioioso lungo 26 anni per i più piccoli, sospeso nel 1943, ripreso fino agli anni ’60, quando con passo largo da spaccata saltò nel bianco e nero di Carosello. L’incipit divenne tormentone di intere generazioni e, per quanto le variabili di mezzo fossero ben accette dai lettori, il finale non poteva mutare. Quando Sto, che praticava l’antiretorica anche per l’infanzia, cambiò l’epilogo per interrompere la monotonia del prevedibile, fu seppellito da lettere di protesta scritte da minuscoli pugni. Non si poteva rovesciare il destino del Bonaventura, era promesso nel suo nome, e ogni viaggio nella sfortuna si poteva sopportare solo per il rituale bigliettone. Tra i lettori più dediti c’era un tale Gianni Rodari, che sulle opere di Sto si formò: «Bonaventura ci ha insegnato che c’è sempre una via d’uscita; più in là c’è sempre il milione, come sopra le nuvole, anche nei giorni di nubifragio, c’è sempre il sole. Da bambini abbiamo amato Bonaventura per il suo intrepido candore. Da grandi abbiamo ammirato Sergio Tofano per la sua discrezione, la sua misura, la sua invisibile, sterminata, ironica pazienza».

E’ così. Non si può dimenticare (eppure accade di continuo) questo romano poliedrico, capace in tutto, disegnatore, illustratore, regista, scenografo, costumista, pubblicitario capocomico, scrittore che operava con il bisturi della magia, ritagliando versi leggeri e accurati, semplici e colti, dai suoni inattesi e il ritmo giocoso, stralunate espressioni di surrealismo all’italiana. Da attore iniziò nel 1908 (nella compagnia di Ermete Novelli), e nel 1927 a teatro diventò il suo pupazzo. Bonaventura sul palco. Uno dentro l’altro. E sarà una coincidenza ma l’autore morì il 28 ottobre 1973, stesso giorno in cui aveva fatto nascere l’ultima maschera della Commedia dell’Arte.

«Sono molto contenta che ci si ricordi del mio padrone», ha scherzato con noi Franca Valeri qualche giorno fa, a 97 anni. Nel 1948 vestì i panni del bassotto di Bonaventura a teatro: «Ero all’inizio della mia carriera e un giorno io e Vittorio Caprioli, poi diventato mio marito, decidemmo: «Bisogna che ci troviamo un lavoro». Volevamo formare una compagnia e Vittorio pensò di chiamare Tofano. A teatro era fra i primi nomi, un punto di riferimento, perciò ero certa che avrebbe rifiutato, invece accettò. Era un grande attore anche nei ruoli drammatici, veramente diverso da tutti, una personalità curiosa, severo verso i colleghi, simpatico, parlava pochissimo. In sé stesso portava due personaggi in particolare, il signor Bonaventura, originalissimo nel suo essere un pagliaccio ma di aspetto nobile, e il Professor Toti di ‘Pensaci Giacomino!’, il triste e buon anziano di Pirandello. Il bassotto è un ruolo a me carissimo, ma ero una debuttante perciò il mio nome non figurava in locandina. Quello di Caprioli sì, perché era uscito dall’Accademia. Sebbene non avessi grandi possibilità mimiche, la parte mi riuscì, stando in piedi chiaramente, non a quattro zampe. Tofano mi diede un ruolo importante il giorno in cui si è ammalata sua moglie, ebbe fiducia, forse si accorse che avevo delle qualità nascoste».

Attualmente la testa del bassotto appartenuta alla Valeri è in scena con Pino Strabioli in I Cavoli a Merenda (produzione del Teatro verde, all’Off/Off di Roma il 26 dicembre), che hanno un’appendice bonaventuresca. L’idea è nata su consiglio dello scomparso Paolo Poli, che conosceva a memoria le novelle di Sto e amava «quel vagabondo alla Charlot, che superava tempeste da bicchier d’acqua».

Tofano portò il sorriso negli anni più tristi della Grande Guerra, apertura e premura professionale durante il fascismo. Passava dal palco al cinema, dalla tv alla docenza all'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica di Roma, dove il suo saggio "Il teatro all'antica italiana" è ancora testo fondamentale. Per Giorgio Strehler fu il primo vero regista del teatro italiano, Monica Vitti lo considerava il suo maestro, quello che le insegnò a tirare fuori l’ironia, né buffonesca né dialettale. Da dove veniva il modo di dipingere e illustrare di Emanuele Luzzati? «Non da Chagall, da Bonaventura!» ammise. Fondatore della scuola Sergio Tofano a Torino, è Mario Brusa, noto doppiatore che negli anni ’60 fu allievo di Sto: «A 70 anni era il più moderno degli insegnanti, avanti su tutto. Anche il suo modo di dire la battuta era controcorrente, la sua idea non era quella del primo attore-mattatore. Ci insegnava la semplicità, la cosa più difficile. Lui a teatro era come Mastroianni al cinema: non ti accorgevi che stava recitando. Eppure quella semplicità proveniva dallo studio dell’arte drammatica, così profondo che non dava la sensazione dell’artefatto. Tofano amava l’insegnamento. In un’aula dell’Accademia Silvio D’Amico, che aveva voluto tutta viola per l’assorbimento della voce, c’è un ritratto con la sua dedica: «Ai miei allievi, grato per gli anni che la loro gioventù mi toglie». Fu un grandissimo, in un’Italia che soffre di amnesia e non tramanda le imprese delle sue menti migliori. Altrimenti non si spiega perché, non avendolo mai sentito, molti pronuncino ancora quel cognome ‘Tofàno’.
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