Philopat, pirati punk
nella Milano da bere

Marco Philopat
Marco Philopat
di Federico Vacalebre
Domenica 29 Ottobre 2017, 21:29
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Ci ha messo vent’anni esatti, Marco Philopat, a far uscire il seguito del suo Costretti a sanguinare, e stavolta, non più per la Shake edizioni, ma per Bompiani (pagine 230, euro 17): I pirati dei Navigli parte più o meno dove il romanzo italiano della gioventù punk perduta si chiudeva. Il Virus, storico centro sociale milanese e cuore della rivolta punk in Italia, non c’è più, la favola con le creste da mohicano è finita. Marco, Kix, Gigione, Gomma, Schwarz, UVSLI, Rex, Magomerlino, Rottame & Co. sognano il Virus prossimo venturo. «No future» da slogan è diventato triste realtà e la rivoluzione è un orizzonte sfumato, l’eroina tiene banco, poi arriverà anche l’Aids. Nonostante tutto, «chi non okkupa preokkupa»: Philopat e il suo mucchio selvaggio - animali metropolitani, «creature simili», punkettoni, motociclisti, femministe, beoni, ribelli senza pausa, comunisti postdatati, anarcosballatoni - trovano una ragione di vita solo quando riescono a mettere insieme sogni e bisogni, a trovare un capannone, una ex officina, uno spazio da condividere, da cui ripartire. Prima dell’assalto sui Navigli al sindaco della Milano socialista da bere Pillitteri, per cui si vestiranno davvero da pirati in una scena di esilarante situazionismo, disegnano la mappa delle rivolte meneghine: la narrazione retromaniaca (copyright Simon Reynolds) si muove tra Primo Moroni e la libreria antagonista Calusca, la rivista cyberpunk «Decoder», , il Leoncavallo e i Cccp che assumono dimensioni scomode e difficili da gestire, l’Helter Skelter, il Cox 18...
Vegano, confuso e infelice, Philopat è «scappato di casa a sedici anni» e «cresciuto lontano da mio padre e dal suo cognome. Al solo pensiero di tirare fuori la carta d’identità mi prende un moto interiore di rifiuto, e non solo perché gli sbirri me l’hanno chiesta troppe volte». Gli anni Ottanta sono per lui una parentesi tra il delirio hardocore e l’avvento del movimento della Pantera e delle posse, che rimane fuori da questo libro: sarà forse in un terzo volume, quando la colonna sonora sarà rap, come avviene qui nelle ultime pagine, quando Public Enemy e i Beastie Boys si sostituiscono a Crass e Poison Girls, Raf Punk e Joy Division, Einsturzende Neubauten e Lydia Lunch, Sonic Youth e Psychic Tv.
Lo stile? Immediato, depresso quando l’entusiasmo scema, travolgente quando l’adrenalina picchia forte, come in un pogo dei tempi d’oro. A proposito, ma un vecchio punk può essere nostalgico?
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