Gifuni, corpo a corpo con Gadda a 40 anni dalla morte del "gran lombardo"

Gifuni, corpo a corpo con Gadda a 40 anni dalla morte del "gran lombardo"
di Donatella Trotta
Giovedì 27 Febbraio 2014, 12:46 - Ultimo agg. 8 Ottobre, 18:08
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Un corpo a corpo con Carlo Emilio Gadda. E un incantamento, quasi una specie di magnifica ossessione per le molteplici risonanze interiori della lingua raffinata e complessa della sua scrittura, che dai tempi di Dante nessuno riuscito ad allargare e impreziosire con tanta ricchezza. Fabrizio Gifuni sintetizza cos il suo personale rapporto con il gran lombardo. Un rapporto non a caso al centro dell’incontro «Leggere il Pasticciaccio» in programma venerdì 28 febbraio nella sede della Fondazione Premio Napoli a Palazzo Reale dove, alle 17, l’attore dialoga con Federica Pedriali - capo dipartimento di italianistica dell’università di Edimburgo, direttrice dell’«Edinburgh Journal of Gadda Studies» e presidente del Premio Gadda - leggendo brani del romanzo Quer pasticciaccio brutto di via Merulana.

Brani scelti da Gifuni stesso, che nell’audiolibro per le edizioni Emons ha di recente affrontato la lettura integrale dell’opera gaddiana (durata: 13 ore e 40 minuti) dopo aver già dato notevoli contributi alla (ri)scoperta e rilancio dell’«officina dell’ingegnere», come l’attore ama definire il mondo dello scrittore: uno per tutti, la drammaturgia e interpretazione teatrale del potente e pluripremiato «L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro».



Perché se in televisione Gifuni - uno degli attori italiani di maggiore talento, empatia e versatilità - ha dato il volto, tra gli altri, ad Alcide De Gasperi, Franco Basaglia e Paolo VI, e al cinema ha interpretato ruoli significativi in oltre trenta film, sino a incarnare il rapace industriale brianzolo del «Capitale umano» di Virzì, è anche, e soprattutto, un uomo di teatro: folgorato, racconta, a 16 anni sulla via di Shakespeare recitato a scuola nel ruolo di Mercuzio. E nel suo lavoro attoriale, e drammaturgico, riscontra allora anche «tante contiguità con la scrittura e la critica letteraria», aggiunge. Da allora, nella magia del teatro Gifuni identifica infatti il luogo privilegiato dove - spiega - «poter giocare una battaglia fondamentale per i destini culturali del nostro paese» e dove «una comunità possa continuare a ritrovarsi liberamente, per condividere uno spazio di pura conoscenza emotiva, in una dimensione rituale e concreta che passa attraverso i nostri corpi». Corpi fisici, ma anche corpi linguistici: come quello della scrittura gaddiana, appunto.



Ma come è nato questo legame, e quanto ha influito sul suo lavoro di attore?



«È iniziato a vent’anni - dice Gifuni - grazie alla lettura del Pasticciaccio consigliatami dal musicologo Paolo Terni, mio docente all’Accademia Silvio D’Amico, il quale conosceva la mia viva curiosità per le mille lingue che scorrono nel grande fiume dell’italiano. Terni intuì che potessi subire la fascinazione di una lingua orchestrata da Gadda in una sapiente mescidazione di alto e basso, dialetti popolari e linguaggio colto. E da quella prima lettura, che ancora oggi ricordo, non mi sono fermato più, prendendo ad assaporare e studiare avidamente tutti gli altri testi di Gadda, pensando subito che questa sua lingua fosse teatro allo stato puro. Un incontro per me decisivo, fondamentale, che ha cambiato la mia visione del mondo».



Molti giovani, tuttavia, rifuggono dalla lettura dei testi di Gadda perché considerati troppo difficili: come li convincerebbe Gifuni a ricredersi?



«Ribaltando il punto di vista: senza cioè considerare Gadda come un ostacolo, bensì come una sfida. Gadda non è difficile; semmai, come dice Citati, è complesso; è la nostra lingua che si è spaventosamente impoverita. Siamo vittime insomma di un effetto ottico distorto. Ma intraprendere la lettura dei suoi testi, anche con un vocabolario a fianco, e magari farlo ad alta voce per meglio entrare nella musicalità, nelle armonie e e dissonanze dello stile gaddiano, può diventare un’avventura linguistica formidabile. Che attraverso racconti e romanzi di una bellezza e profondità scintillanti attiva un processo di conoscenza con cui riscattarci dalle paludi e dall’opacità del presente».



Diceva Genet che per la bellezza non c’è altra origine che la ferita: deriva forse anche da questo la «Cognizione del dolore» di Gadda?



«Ne sono certo. L’opera, il mistero della lingua di Gadda derivano da una ferita originaria, sono la sua reazione al dolore per la grande catastrofe della prima guerra mondiale, la perdita del fratello, la prigionia, le proprie nevrosi e il rapporto la madre. Non si può prescindere da questo: limitarsi alle formule critiche dello sperimentalismo, del barocco, del pastiche letterario non aiuta a penetrare nello (s)catenamento della parola in Gadda, inteso come liberazione della lingua dalle catene del conformismo, né aiuta a raccontare adeguatamente la carne e il sangue delle istanze gaddiane, capaci di attivare un cortocircuito costante con la storia del nostro paese, fatta, per l’ingenere-scrittore dalla formazione scientifica, di esplosioni e implosioni quantiche, ossia energetiche, ricorrenti e cicliche».



È anche questo cortorcuito il senso dell’operazione di Gifuni su Pasolini e Gadda, nel solco dell’«antibiografia della nazione» echeggiata da Piero Gobetti?



«Sì. È un progetto che mi sta impegnando da oltre dieci anni, con la regia di Giuseppe Bertolucci, intrapreso come un lungo viaggio a puntate: la prima tappa nel 2004, con il capitolo su Pasolini, la seconda nel 2010 con il debutto del testo gaddiano, in cui ho mescolato diversi brani, dai suoi ”Diari di guerra e di prigionia“, note gaddiane sulla Grande Guerra del ’15-’18, a ”Eros e Priapo“, le sue annotazioni psico-letterarie sul flagello del ventennio fascista, attraverso frammenti de ”La cognizione del dolore” fino all’”Amleto“ di Shakespeare, paradigma del Gonzalo Pirobutirro, sorta di amleto posmoderno protagonista della ”Cognizione del dolore“, in uno slittamento di luoghi e tempi. Perché la Danimarca marcia del principe shakespeariano in fondo non è dissimile dall’Italia bellica e fascista dei primi del ’900, e l’insostenibile peso specifico del romanzo gaddiano deriva proprio da questo: dalla reazione dello scrittore al quesito amletico (essere o non essere?) al quale risponde reagendo proprio con la corazza della sua lingua. Unico modo, per lui, di restare all’interno della comunità umana».



A quarant’anni dalla morte di Gadda e a cento dalla Grande Guerra quanto è attuale questa traiettoria non soltanto letteraria?



«L’officina dell’Ingegnere è un laboratorio di attività permanente che ci interpella sempre - sorride Gifuni -. Fatalmente, la storia del nostro Paese è soggetta a cortocirtuiti, a microfascismi antropologici che fanno talvolta inabissare l’Italia in paludi dove non è tanto la psicopatologia erotica dei potenti il nodo più oscuro, come intuì Gadda, bensì la fascinazione del popolo italiano nei confronti di tali figure. È impressionante come lui l’abbia compreso in anticipo. Tanto che nel pieno di un altro ventennio dopo quello fascista, quando debuttammo con ”L’ingegnere va alla guerra“ fummo costretti ad affiggere cartelli all’ingresso del teatro per chiarire che i testi in scena erano rigorosamente ed esclusivamente di Gadda e Shakespeare, non nostri: tale l’attualità che trasudavano. Ma in fondo è proprio questo il nostro compito di attori: staccare la parola dalla sua dimensione orizzontale, rimetterla in verticale e far risuonare quella parola, che non si è depositata per caso sui fogli ma proviene dai corpi degli scrittori. Noi attori, staccandola dal foglio, ce ne facciamo così carico con il corpo riportando con un processo inverso le parole alla loro dimensione originaria, in un rapporto di fratellanza tra autori e interpreti. La lezione di Gadda, il senso della sua opera, l’esercizio spirituale e insieme laico, con lo statuto etico del suo pensiero sono anche questi: invitano con evidenza cristallina ad un’altra esperienza fondamentale e decisiva, in un percorso formativo di conoscenza: la dimensione della lettura ad alta voce, particolarmente opportuna nel caso di alcuni autori complessi, o della poesia. E nel mio personale tragitto nella lingua pensante italiana, da Dante a Gadda, rilanciano così il celebre monito dell’Alighieri: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza».

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