È morto Pierluigi Cappello, il poeta autore di Questa libertà: da centometrista a disabile sulla sedia a rotelle

Pierluigi Cappello al premio Nonino
Pierluigi Cappello al premio Nonino
di Renato Minore
Domenica 1 Ottobre 2017, 19:44 - Ultimo agg. 3 Ottobre, 09:22
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“Il letto si è trasformato in un tappeto volante, un luogo in cui per un po' ci si sottrae al mormorio del quotidiano e si vedono le cose da lontano e dall'alto. Da lassù gli anni scorrono via dalle nostre vene, si concede una tregua al corpo e il pensiero si libera del superfluo che ingombra la giornata. Ho concepito e scritto diverse poesie adagiato a letto”.

Così aveva scritto Pierluigi Cappello, il cinquantenne poeta friulano, morto questa notte a Trassacco alle porte di Udine, dove viveva, in un prefabbricato di legno d'abete donato dall’Austria dopo il terremoto del 1976. Lì si era stabilmente trasferito dopo l’incidente stradale che aveva segnato per sempre la sua esistenza, con la recisione del midollo spinale, la condizione d’immobilità, di minorità fisica da cui non era più uscito.

Cappello aveva raccontato tutto nel memoir pubblicato tre anni fa, “Questa libertà”, parlando di se stesso, dell’infanzia, del sisma nella sua terra, dell’incidente e del dopo, di se stesso poeta e anche biografo della propria vita. «Mettere un poeta al banco di prova di una scrittura narrativa è come far correre a un centometrista i diecimila piani». Centometrista non solo come poeta (a sedici anni, nel 1983, prima dell'incidente che l’ha costretto alla sedia a rotelle, li correva in undici secondi), i suoi diecimila piani Cappello li aveva percorsi tutti d'un fiato nel memoir, con grande scioltezza e felicità di passo.

Era originario di Chiusaforte a pochi chilometri dal confine con Austria e Slovenia, «fragile cerniera» fra universi culturali e linguistici contigui ma poco comunicanti, luogo di ricordi e cesure assai dolenti, come quella del terremoto: «Una casa e la forma di un vivere morirono così, in circa sessanta secondi insieme alla certezza che stare in cima su un colle mi avrebbe preservato dalle battaglie del mondo». Nelle prime pagine del memoir c’è la ”frattura” originaria: protagoniste sono le pietre piegate dall'urlo del sisma nel 1976 due volte, in maggio e settembre, radendo ogni casa e sconvolgendo ogni esistenza con l'esodo conseguente.

Compare la memorabile figura di Silvio, il canestraio malato di cuore, silenzioso e sapiente nell’arte antica d'alleviare la fatica altrui («e le dita andavano di vinco in vinco / come un’acqua nervosa, una spiegazione raccolta / nel tempo dietro»), al quale Cappello dedicava versi nella antologia «Azzurro elementare», uscita nel 2013 con prefazione di Francesca Archibugi). Ecco l’irruzione della ”modernità” attraverso l'episodio di un'enciclopedia comprata a rate - come la prima lavatrice Zoppas - da genitori indigenti ma pieni di orgoglio per un figlio che sta sperimentando come «lo sguardo di chi legge è moltitudine», spaziando dall’incomprensibile «Chanson de Roland» letta a scuola in lingua all’Hemingway di «Addio alle armi». «Questa libertà» è il romanzo di formazione dello sguardo di un bambino che torna agli spazi segreti e luminosi e ai luoghi lontani, ai paesaggi interiori immaginati attraverso i libri, protetto sopra il ramo di un ippocastano dove un memorabile inizio («Chiamatemi Ismaele») lo isola dal mondo dei suoi coetanei.

Dopo il terremoto ecco due nuove fratture: l’impatto della città sull'adolescente che va a studiare in convitto e la libertà è «il campanello della stazione che annuncia il treno, sogno di un altrove oltre quella frontiera di ghiaccio e sassi». E, infine, l’incidente che ha spezzato in due la schiena e l’esistenza di quel ragazzo schiantatosi con la moto contro una roccia. Che «non sentirà più la pressione del suolo sotto i suoi piedi, non sentirà più scorrere l’acqua sulla sua pelle in tre quarti del suo corpo, né il vento né carezze, né baci».

Tormento, tenerezza, profondità, in Cappello, diventano carne, occhi, voce, «il gorgo, l'inconscio, persino il fraintendimento della libertà», ha scritto Eraldo Affinati. Soprattutto un dolore calmo e continuo senza sgomento che scivola in ogni pagina dentro la fluidità e la trasparenza di una lingua dove nessuna parola sembra di troppo. Come nei versi che abbiamo imparato a conoscere di Cappello, poeta che ha avuto il premio Montale,il Viareggio e il Premo dell’Accademia dei Lincei, di cui l’Archibugi dice che testimonia «l’ineluttabile distruzione di un mondo che amavamo, non per nostalgia, ma perché ne è nato un altro per feroce contrappasso e che ci metteremmo molti altri passi, decenni, a superare”.

La Archibugi ha anche girato nel 2015 un film-documentario su Cappello. La piccola storia del poeta friulano, che è necessariamente anche la grande storia di una terra e di un popolo, scorre sullo schermo così come scorre nella quotidianità. Con tutte le sue suggestioni e i suoi ”temi”. Le radici nella propria terra e le testimonianze degli amici. I luoghi e i ricordi. L'ombra scura del 1976 e il profilo verde delle montagne. La sedia a rotelle che spezza la libertà di un sedicenne e disegna, millimetro dopo millimetro, la libertà di un uomo che abita «tra l'ultima parola detta e la prima nuova da dire».

“Ovunque si è nati si nasce nel ricordo/ ognuno da solo, /e per ognuno ad una ad una le vite sono andate / come sabbia soffiata dal vetro”: sono versi dell’ultima raccolta di Cappello (“Stato di quiete, Poesie 2010-2016”) che ancora raccontano di una dimensione culturale e sociale che sta scomparendo e accusano l'ordine che vuole sostituirlo «sottraendo memoria, rimuovendo il dolore, eliminando la morte». Perché laddove s'è perduto il senso di comunità, s'è perduta la terra dei padri, la terra dei padri diventa la lingua stessa, diventa una sorta di patria interiore, terra dei padri interiore, lingua interiore, dove tutto diviene possibile.

 
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