«Volevano costringermi a pentirmi»,
il nuovo sfogo del boss Zagaria

«Volevano costringermi a pentirmi», il nuovo sfogo del boss Zagaria
di Mary Liguori
Giovedì 18 Gennaio 2018, 06:33
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Provato dall’affondo che la magistratura ha assestato alla sua famiglia, con il recente arresto delle donne di casa, e di fronte all’ennesima richiesta di condanna, il boss Michele Zagaria ha di nuovo perso le staffe. E ha chiesto la parola per scagliarsi contro il magistrato che ha condotto la maggior parte delle inchieste che riguardano il suo clan. Dodici anni di carcere: è stata questa la richiesta della Dda di Napoli per il boss Michele Zagaria e per Salvatore Verde accusati di avere reso il Polo calzaturiero di Carinaro una «lavatrice» per ripulire i soldi del clan. Il boss sta probabilmente vivendo uno dei momenti più pesanti della sua vita carceraria perché da qualche mese anche sua sorella e le sue cognate sono state coinvolte in un’inchiesta della Dda, accusate di avere usato il denaro della cosca per fare la bella vita. La requisitoria, ieri, dinanzi al gup Claudia Picciotti presso il tribunale di Napoli è stata pronunciata dal sostituto procuratore Catello Maresca al termine dell’ennesima turbolenta udienza che ha avuto per protagonista il capo dei Casalesi detenuto al 41bis nel carcere di Milano-Opera.
 
Collegato in videoconferenza dal penitenziario lombardo, Zagaria ancora una volta ha voluto dire la sua e, ancora una volta, la procura ha chiesto l’acquisizione degli atti inerenti la registrazione del suo «exploit». Dopo aver mimano il gesto dell’impiccagione per protestare contro la fiction Rai e dopo aver chiesto un risarcimento danni che però il tribunale civile si è rifiutato di accordargli, ieri Zagaria si è scagliato contro il pm Maresca, tra i magistrati che nel 2011 hanno coordinato l’indagine che portò alla sua cattura dopo quasi diciassette anni di latitanza.
«Mi voleva far pentire», lo sfogo di Zagaria rivolto ai magistrati dopo che, in precedenza, ha più volte affermato di essere «una vittima di un sistema». Il suo sfogo sarà oggetto di approfondimento, gli atti sono stati inviati in Procura, mentre l’ennesimo processo a sua carico sta per definirsi: la sentenza per il Polo calzaturiero usato, secondo la Dda, come una «lavatrice» per i soldi del clan dovrebbe arrivare a sentenza già nel mese di febbraio.

La vicenda al centro del rito abbreviato che vede imputati il boss casalese e Salvatore Verde detto «Tore la bestia», risale a molti anni fa ma venne alla luce nel dicembre del 2016 quando i carabinieri notificarono al solo capoclan un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Nucleo della contestazione la «Sogest srl» con sede a Roma, l’impresa incaricata di eseguire i lavori per la costruzione del Polo calzaturiero nella zona Asi tra Carinaro e Gricignano d’Aversa. Secondo l’accusa, all’epoca si pagava un miliardo di lire all’anno alla camorra. Da un lato c’era l’impresa manifatturiera che voleva diventare «sistema», dall’altro il clan. Al centro, il complesso del polo che stava per sorgere nel 1997. In seguito si costituì un consorzio di imprese. La «Unica»: società consortile del Polo. Nel processo è costituito parte civile l’imprenditore Luciano Licenza, rappresentato dall’avvocato Vittorio Giaquinto. 
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